ROMA. Obbligare i lavoratori a destinare una quota del Tfr alla previdenza complementare. È questa la misura a cui sta lavorando il governo, su proposta del sottosegretario leghista Claudio Durigon, per rafforzare le pensioni future dei giovani. Per ovviare a carriere discontinue, buchi contributivi e una quiescenza lontana nel tempo, il progetto è quello di sommare all’assegno maturato con i contributi versati, anche una parte del trattamento di fine rapporto che i lavoratori accantonano mensilmente. Ma è proprio questo obbligo – seppure in parte – di aderire ai fondi pensione che suscita perplessità sia tra i tecnici all’interno dell’esecutivo, sia tra i sindacati. Infatti, il Tfr è un elemento della retribuzione il cui pagamento viene differito alla fine del contratto, e nel frattempo accantonato all’Inps, in azienda o, appunto, su un fondo pensione. Si tratta di una libera scelta della persona. I giuristi storcono il naso perché vedono impraticabile una misura che vincola per legge una parte dello stipendio. Anche la Cgil è scettica: «Questa proposta non è mai stata discussa con le parti sociali, non può essere considerata risolutiva di un problema più generale che riguarda le giovani generazioni. Bisogna tenere a mente che il Tfr è un elemento della retribuzione», sottolinea Enzo Cigna, responsabile previdenza del sindacato guidato da Maurizio Landini. «La piattaforma unitaria di Cgil, Cisl e Uil dice da tempo di investire maggiormente sulla previdenza complementare, tuttavia anch’essa non può essere vista come una risposta risolutiva per tutti perché non darebbe alcuna copertura a coloro che hanno discontinuità lavorative».
Osservando le dinamiche del mercato del lavoro e le contribuzioni previdenziali dei lavoratori che hanno iniziato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995, emerge un rischio concreto che molti si ritrovino con una pensione di importo basso. Questo rischio è accentuato dalla crescente precarietà e dai buchi nella contribuzione, che colpiscono in particolare donne, giovani e impiegati part-time. In più, i giovani rischiano di andare in pensione dopo i 70 anni con un assegno da fame.
In Italia ci sono oltre 4 milioni di lavoratori che hanno contratti part-time, rappresentando il 18% del totale degli occupati. Di questi, il 56% lavora part-time involontariamente, perché non trova alternative a tempo pieno. Questo fenomeno colpisce i giovani, le professioni meno qualificate e i contratti a tempo determinato, con una prevalenza significativa nel Mezzogiorno. Le donne sono particolarmente colpite dal part-time involontario, rappresentando i tre quarti del totale di questi contratti. Il 16% delle donne ha un impiego a orario ridotto per mancanza di alternative, rispetto a poco più del 5% degli uomini. Cosa ha fatto finora il governo per introdurre strumenti volti a ridurre il rischio per i lavoratori più vulnerabili? Con la manovra dello scorso anno ha complicato le cose per quella categoria di lavoratori (giovani e meno giovani) che hanno iniziato a versare i contributi nel ’96 – quindi non prima di 28 anni fa – e che potrebbero anticipare la pensione tutta contributiva con 64 anni di età e 20 di contributi. Per ottenere questo beneficio, già previsto dal sistema italiano, ci vuole un minimo e un massimo di importo versato. L’esecutivo ha alzato il livello minimo, da 2,8 l’assegno sociale a 3 volte: si passa da 1.310 euro lordi mensili a 1.600. Per la Cgil questo intervento ha l’effetto di «rendere praticamente impossibile la pensione anticipata per i giovani».
Cigna indica un’altra strada: «La pensione contributiva di garanzia sarebbe la vera risposta». Secondo la Cgil, la pensione di garanzia si applicherebbe a tutti i soggetti che hanno iniziato a versare i contributi dal 1996, combinando anzianità ed età di uscita per garantire un trattamento di garanzia.
L’importo della pensione di garanzia crescerebbe con la contribuzione e l’età, incentivando il versamento dei contributi e il posticipo del pensionamento. Dunque, tra i periodi da “valorizzare” ci sarebbero la disoccupazione, il tempo di cura per familiari con handicap gravi, la formazione, gli studi universitari, tirocini, stage, maternità, part-time e così via. Si tratta di una riforma che ovviamente non è gratis, e che potrebbe avere un impatto sulla finanza pubblica già tra pochi anni.