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23 Ottobre 2024Diario da Israele
Lo scrittore israeliano sulle paure di un anno di guerra e la (timida) speranza di pace
di Eshkol Nevo
Ti può sorprendere in pieno giorno. In una serra in cui sei andato a comprare una pianta per il nuovo appartamento. Dove ci si nasconde dai missili dentro una serra? Sotto i cactus? Ti ritrovi a correre dietro a persone che si precipitano fuori dalla serra. Se stanno correndo, sapranno ben dove. Il volume della sirena dell’allarme si alza e si abbassa e tu corri dietro agli altri finché non ti ritrovi in un rifugio che ti sembra vagamente familiare. E dopo un po’ ti sembra molto familiare. In effetti una volta abitavi lì. Anni fa. Un periodo bello, spensierato, in una casa in affitto che dava sui campi. Scendi le scale verso il ventre della terra e ci trovi i tuoi vicini di un tempo. Come mai qui? si sorprendono, sei tornato ad abitare nel quartiere? No, spieghi, c’è stato l’allarme. Per questo sono arrivato. È un missile sparato dallo Yemen! comunica un minuto dopo un tizio a cui il cellulare funziona. A quel punto sai: i missili provenienti dallo Yemen di solito vengono intercettati prima di raggiungere Israele, ma i frammenti che cadono dal cielo dopo la neutralizzazione sono pericolosi. Un uomo è rimasto ucciso da uno di quei frammenti mentre guidava sulla stessa strada che tu percorri sempre per andare al lavoro. Cos’hanno gli Houthi dello Yemen contro Israele? Continua a non esserti chiaro. Cos’hanno gli sciiti in Iraq? Cosa vuole veramente Hezbollah da Israele, a parte annientarla? D’altro canto in tutta onestà non capisci neanche la strategia a lungo termine del tuo governo. Che non esista?
Ti può sorprendere in piena notte. Sveglia. Sbrigati. Non c’è tempo. Tra il momento in cui parte la sirena e la caduta del missile passano meno di due minuti. Ma poi ti accorgi che sei andato a dormire con addosso la maglietta delle manifestazioni contro il governo. Non è detto che tutti i vicini del palazzo dove ti sei appena trasferito condividano le tue opinioni politiche. Allora ti infili una maglietta neutra, passi da una camera all’altra per assicurarti che le figlie siano tutte sveglie e corri insieme a loro giù per le scale fino al rifugio comune. Vi siete trasferiti di recente, perciò alcuni dei vicini li incontri per la prima volta sottoterra. «Ciao, molto piacere, siamo i nuovi vicini. Peccato conoscerci in queste circostanze». Nelle notti seguenti avrai modo di notare che il divorziato del secondo piano scende nel rifugio ogni volta con una donna diversa. Che la coppia del terzo parla in ebraico con i figli, ma i due tra loro si parlano in francese e in francese sembrano molto più preoccupati. Che la famiglia che abita nell’attico durante gli allarmi lascia il vecchio nonno in casa. Non è fisicamente in grado di scendere nel rifugio, quindi cercano di calmarlo al telefono e dalla voce si sente che i sensi di colpa li rodono. Nel rifugio nessuno urla mai. Nessuno va in panico. Ci sono dei materassi sul pavimento ma nessuno si sdraia. Aspettiamo tutti, con pazienza, i dieci minuti che bisogna aspettare per considerare conclusa la neutralizzazione, e poi rientriamo in casa. Solo il bebè della coppia del primo piano piange ininterrottamente, come per ricordarci che quello che sta succedendo non è normale.
Ti può sorprendere mentre stai tagliando i capelli. Il parrucchiere ha completato il primo lato quando scatta l’allarme. Tu, il parrucchiere e altre due donne con la tinta in testa correte al rifugio più vicino. È un rifugio grande, pubblico, sulla via principale della città, in cui si pigiano centinaia di persone. Ragazze con i pantaloncini cortissimi, ultraortodossi, uomini con la kippah, operai arabi e in mezzo a tutti gli altri, proprio adesso, proprio qui, la donna che un tempo, durante l’università, hai amato. Come mai qui, Eshkol? Ci abito. E tu, come mai qui, vivi nella mia stessa città e non lo sapevo? No, mi spiega, avevo una visita medica da queste parti.
Parlate un pochino. Due chiacchiere. Le vostre conversazioni hanno sempre avuto un buon ritmo, un beat che permane ancora adesso. Lei sposta ancora i riccioli da una spalla all’altra con un gesto deciso. Le sue fossette stimolano ancora le tue che attivano le sue. E la sua palpebra destra tarda ancora ad aprirsi dopo che ha chiuso gli occhi, dando l’impressione che ti stia facendo l’occhiolino anche se non è così. Quando finiscono i dieci minuti che bisogna aspettare vi salutate con un abbraccio un po’ più lungo del normale ma rinunciate alla banalità del «ci si vede per un caffè uno di questi giorni».
I problemi alle ginocchia
Solo dopo che se n’è andata ti rendi conto che hai i capelli tagliati a metà. L’altra metà niente. Come un pagliaccio. Ecco come ti ha trovato, dopo tanti anni.
I tuoi genitori vivono nel Nord, a Haifa. Lì l’allarme parte diverse volte ogni ora. Tuo padre ha problemi alle ginocchia perciò non fa in tempo a raggiungere il rifugio. Il botto dell’intercettazione arriva prima che riesca a entrarci. Gli proponi di trasferirsi a casa tua per un po’, è più sicuro. Dicono che ci penseranno, ma sai benissimo che non lo faranno. Se anche cadesse un missile a un metro da casa loro, non si muoverebbero. Tuo padre è un gran testardo, dice tua madre. A tua madre piace dormire nel suo letto, dice tuo padre. Dopo ogni allarme gli scrivi. E loro scrivono a te. Non siete solo voi. Tutti chiedono in continuazione a tutti, sui gruppi WhatsApp: tutto a posto? E tutti rispondono: sì. Anche se non è vero. Cioè, il corpo magari sarà anche a posto, ma lo spirito proprio per niente. Lo spirito è eroso, sfinito, esaurito. Per quanto tempo si può rimanere in tensione in attesa del colpo? Ogni motocicletta che romba, ogni trapano che trapana, ti sembrano un allarme, vedi le tue figlie irrigidirsi, pronte a correre nel rifugio. Dopo prendono un respiro di sollievo. Persino il vento a volte può fischiare in modo simile a una sirena. Ti domandi se quello che sta succedendo le tormenterà per il resto della vita. Anche quando partiranno per un viaggio in Sudamerica o in Nepal? Qualsiasi suono che ricordi vagamente un allarme le farà saltare?
Tenti di immaginare una sirena d’allarme nella tua piazza preferita in Italia, piazza Emanuele Filiberto a Torino. Tutta la gente entrata dal tabaccaio per compilare la schedina schizzerebbe fuori con il modulo in mano? Le persone sedute al caffè Pastis mollerebbero il loro macchiato per precipitarsi verso il rifugio? Oppure correrebbero con il caffè e il piattino, stando attente a non rovesciarlo? Ci sarà un rifugio in piazza Emanuele Filiberto? Ci sono rifugi in Italia? Mandi a tutti i tuoi amici in Italia la stessa domanda: quando è stata l’ultima volta che nella tua città è suonato un allarme? Nelle città ci sono rifugi? Uno risponde che a Roma l’ultimo allarme è risuonato negli anni ’80: una prova di funzionamento. Un’altra spiega che a suo avviso ci sono ancora rifugi a Milano per l’eventualità di un attacco nucleare, si troverebbero sotto le chiese. Una terza dichiara che nemmeno per sogno, non ci sono rifugi. Un amico un po’ più anziano rammenta gli attentati degli anni di piombo. Racconta che in strada si aveva paura. Ma allarmi non ce n’erano. Due o tre amici non rispondono proprio. Chissà. Forse li hai spaventati. Forse hai superato un confine invisibile.
Ti può sorprendere mentre stai scrivendo il Diario di guerra. Merda. Adesso, a metà frase. Salvi il file e corri al rifugio. È mattina presto. Siete solo tu e il divorziato. Questa volta invece una donna ha con sé la figlia. Spiega che nella sua scuola il rifugio non è abbastanza grande, le classi frequentano a giorni alterni. A volte ha lezione, altre è a casa. «Prima il Covid, ora questo, la loro generazione è fregata», commenta a voce bassa mentre lei è assorta nel suo telefono.
Ti può sorprendere qualche giorno dopo, mentre sei in bicicletta con un amico, per le strade deserte perché è Yom Kippur. Non c’è modo di nascondersi perciò ci sdraiamo sull’asfalto con le mani sopra la testa. E preghiamo. Questa volta il boom è molto vicino. Pochi minuti dopo partono le sirene delle ambulanze. Scopriremo che si è trattato di un drone che ha colpito una casa di riposo nei paraggi. L’indomani un missile colpisce un edificio nel Nord del Paese dove avresti dovuto tenere una conferenza. La conferenza, per fortuna, era stata annullata a causa della situazione.
Inizi ad avere l’impressione di trovarti in un videogioco il cui protagonista deve sfuggire a continui tentativi di ammazzarlo. Ma non è un videogioco, questa adesso è la tua vita.
La poesia
Così termina una poesia-lettera del poeta Lior Sternberg alla donna che un tempo ha amato, incontrata per caso in strada: Non ho una massima di saggezza matura/con cui concludere come si deve/non rabbia/non amore/solo questa fibra nascosta (si può confessare?) pulsa ascetica/ si muove ancora nella profondità morbida/verso la tua ombra.
Tra un allarme e l’altro leggo poesie, per rammentare a me stesso che sono un essere umano. Mentre terminavo queste righe hanno reso noto che Yahya Sinwar, il capo di Hamas responsabile del massacro del 7 ottobre, è stato ucciso a Gaza. Si risveglia in me la speranza (si può confessare?) che questo sia l’inizio della fine della guerra, che gli ostaggi torneranno, che non dovremo più correre nei rifugi, che non scriverò più questo diario, che dopo queste ultime righe tornerò a scrivere storie d’amore.