FRANK BOWLING AND SCULPTURE
17 Luglio 2022L’architetto tra sacro e profano
17 Luglio 2022di Michele Primi
«Sono ancora in forma/ Ho raffinato i miei metodi». E cambiato colore. Per superare un periodo difficile come gli ultimi due anni, Paul Banks, voce, basso e chitarra degli Interpol, band che ha fondato a New York nel 1997 con il chitarrista Daniel Kessler (il batterista Sam Fogarino è entrato nella formazione nel 2000), ha comprato un nuovo basso Fender Precision color crema. Un cambio di tinta importante per una band che si è imposta nell’indie-rock dei primi anni Duemila con un immaginario rigorosamente in bianco e nero attraversato da lampi di rosso, un’atmosfera cinematografica noir e un suono in cui la voce è quasi sommersa da un insieme di chitarre e tastiere avvolgente, profondo, riconducibile all’attrazione di Banks e Kessler verso l’estetica dark e post-punk britannica.
A vent’anni di distanza dall’esordio con l’album Turn on the Bright Lights del 2002, Paul Banks ha guidato gli Interpol in una nuova direzione con il settimo album The Other Side of Make-Believe, uscito il 15 luglio per l’etichetta Matador (gli altri album sono Antics del 2004, Our Love to Admire del 2007, Interpol del 2010, El Pintor del 2014 e Marauder del 2018), cercando nel frattempo di dare un senso alle cose. «Ho raffinato i miei metodi», canta nella prima strofa del brano che apre l’album, Toni. Il nuovo basso Fender Precision color crema è diventato il simbolo della ricerca di positività in un mondo incomprensibile, gravato dal peso dell’isolamento.
Paul Banks, nato il 3 maggio 1978 a Clacton-on-Sea in Inghilterra, in una famiglia con un padre dirigente di una casa automobilistica («la mia famiglia viaggiava come quella di un militare senza essere di un militare», ha raccontato), è cresciuto negli Stati Uniti in Michigan dall’età di tre anni, poi in Spagna, ancora in America in New Jersey e poi a Città del Messico prima di arrivare a Manhattan per studiare letteratura alla New York University. Quando tutto si è fermato per il Covid, Paul Banks era appena sceso dal palco dopo un concerto degli Interpol a Lima, in Perù, davanti a 40 mila persone, ed era su un aereo diretto in Scozia per raggiungere la sua fidanzata.
Era il marzo 2020. Banks racconta a «la Lettura» da Berlino: «Mentre ero in volo hanno annunciato la chiusura delle frontiere a causa della pandemia. Io ho il passaporto britannico, e sono rimasto a Edimburgo per un anno». Una casa con una sedia davanti ad una finestra affacciata sulle strade del centro storico di Edimburgo, il suo nuovo basso color crema e la sensazione di dover rispondere alla situazione con canzoni «intime, rilassate e positive». Secondo Paul Banks, The Other Side of Make-Believe è il disco dei colori immerso nell’oscurità degli Interpol.
Mentre lei scriveva a Edimburgo, Daniel Kessler era in Spagna, Sam Fogarino ad Athens in Georgia e a tenere insieme 45 minuti di musica nata da uno scambio di mail c’erano due maestri dell’immersione del rock nell’elettronica, i produttori Alan Moulder e Flood. Poi, nel marzo 2021, vi siete ritrovati in America nella zona delle Catskill Mountains per suonare quelle canzoni insieme. Che cosa è successo?
«Per la prima volta non ho dovuto cantare facendomi largo tra gli strumenti. Scrivevo le mie linee di basso e non dovevo combattere contro il volume di Sam e Daniel, perché ero solo in una stanza dall’altra parte del mondo. Per questo credo che le melodie di The Other Side of Make-Believe siano diverse dal solito. Forse sono solo più serene, meno intricate. Abbiamo affittato una casa in mezzo alle montagne, abbiamo tolto tutti i mobili, ci siamo chiusi dentro e abbiamo suonato. Avevamo sette brani pronti e siamo andati avanti fino a quando non ci siamo resi conto che tutte le undici canzoni potevano stare in piedi da sole. Le abbiamo fatte funzionare».
Dopo vent’anni di carriera trova più liberatorio scrivere o cantare canzoni?
«Per molto tempo mi sono considerato un tipo che grida nel microfono e ha scritto qualche strofa. Pensavo che Bob Dylan fosse uno scrittore e non un cantante, come Leonard Cohen o Neil Young, e persino Beck, tutti artisti a cui mi sono ispirato. Scrivere è catartico ma a 44 anni ho capito che cantare è un’emozione che mi fa stare meglio e mi aiuta nella vita. Ricordo le prime lezioni di musica a scuola. Suonavo il sassofono, poi ho preso in mano la chitarra e appena ho imparato tre accordi ho subito voluto scrivere canzoni mie, invece di imparare quelle degli altri. La musica mi ha parlato, volevo starle vicino. Non è un metodo che raccomando: forse se avessi studiato di più sarei un chitarrista e anche un bassista migliore».
Da che cosa trae ispirazione per scrivere le canzoni degli Interpol?
«Dalla sensazione di urgenza che provo nel manipolare i suoni usando gli strumenti. È un’operazione che trovo ancora oggi difficile ma mi rende sempre felice».
Sembra che ogni album uscito nel 2022, come «The Other Side of Make- Believe», sia inevitabilmente il riflesso di quello che è successo negli ultimi due anni. È un limite o uno stimolo per una band come gli Interpol, abituata a disegnare un’immagine della realtà senza mai provare a spiegarla chiaramente?
«Sono uno che si interessa a tutto, mi piace parlare delle implicazioni di ciò che accade nel mondo. Non abbiamo mai dovuto affrontare nello stesso momento una pandemia globale e una instabilità politica e sociale come quella degli ultimi anni. È stato un momento di totale incertezza, nessuno sapeva se la nostra società sarebbe ritornata alla normalità, poteva essere la fine di tutto. Una situazione molto potente, che ha coinvolto tutti. Io sono stato fortunato, ero a Edimburgo, un luogo pittoresco e pacifico, pieno di energia giovanile e natura, mentre il mondo sembrava in caduta libera. Cosa ci ha insegnato tutto questo? L’umiltà. Sappiamo che la natura ci può spazzare via. Abbiamo una civiltà splendida ma non è garantito che duri per sempre. Siamo tutti dei sopravvissuti e dovremmo iniziare a essere più responsabili l’uno verso l’altro. E poi c’è stata la manipolazione dell’informazione, la distruzione dell’obiettività, la polarizzazione delle opinioni, la tensione tra scienza e politica, verità e finzione. È tutto molto interessante. Secondo me ci saranno generazioni di film che parleranno di quello che è successo».
Tra i riferimenti cinematografici di «The Other Side of Make-Believe», sempre presenti nei dischi degli Interpol, ha citato «Barfly», film del 1987 tratto da una sceneggiatura di Charles Bukowski in cui Mickey Rourke interpreta il suo alter ego letterario Henry Chinaski e la sua decadenza alcolica.
«Mi piaceva l’immagine di un uomo seduto da solo in un bar vuoto di Los Angeles che canta al barista all’estremità opposta del bancone. Quando abbiamo registrato le canzoni in studio non abbiamo sentito l’esigenza di cambiare quell’atmosfera intima e di creare un suono più potente. Anzi, volevo fare esattamente il contrario di quello che ho fatto nei dischi precedenti».
Eppure fin dalle prime note di chitarra del primo brano, «Toni», si riconoscono subito il suono e il mondo degli Interpol.
«Mi sento parte di una reazione chimica. Tutto ciò che Daniel Kessler compone e suona provoca qualcosa in me. Quello che faccio non nasce nel silenzio, ma da una musica molto potente e definita. La progressione di accordi di Toni è l’anima e il cuore della band, il nostro Dna, nasce in modo spontaneo. Io riempio questa architettura con le mie linee melodiche e una scrittura libera, improvvisata, come un esperimento surrealista. A volte penso che per qualche ragione una parte fondamentale della mia vita sia dedicata a una forma di pittura sonora, in cui provo a esprimere emozioni impercettibili che altrimenti resterebbero nascoste. Per un cantante è un territorio libero, dal potenziale immenso. Forse in futuro lo farò ancora usando il mio nuovo basso color crema».
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