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C’è qualcosa nella risata — quella piena, contagiosa, che nasce dal riconoscere l’assurdità del mondo e decidere di amarla comunque — che è profondamente sovversivo. Stefano Benni, scomparso a settantotto anni, è stato il maestro di questa forma di sovversione gentile.
In un panorama letterario spesso ossessionato dalla seriosità come certificato di profondità, Benni ha scelto la strada più rischiosa: quella di chi crede che si possa dire tutto ridendo, anzi che ridendo si possa dire di più. Non per caso i suoi libri hanno resistito a mode e stagioni, continuando a trovare lettori in generazioni diverse. Il suo umorismo non metteva alla berlina le debolezze umane per sentirsi superiore: le riconosceva come proprie.
I personaggi di Benni — dal barista di provincia di Bar Sport ai guerrieri spaventati, dalle ballerine celestine ai musicisti falliti della Compagnia dei Celestini — sono inadatti, sognatori, perdenti magnifici in un mondo che non li comprende. Ma la loro inadeguatezza non è mai patetica: è un modo diverso di stare al mondo, una resistenza silenziosa all’omologazione.
Sono figure che sembrano uscite dall’infanzia e che dell’infanzia conservano la capacità di stupirsi, indignarsi, credere nell’impossibile. Non è nostalgia, ma la consapevolezza che crescere non significa indurirsi: si può essere adulti senza rinunciare alla meraviglia.
Il fantastico, per Benni, non era evasione ma uno sguardo obliquo sul reale. I suoi mondi surreali, le distopie comiche, le favole moderne non ci allontanano dal presente: lo riflettono in uno specchio convesso, rivelando ciò che la cronaca non riesce a cogliere.
C’è una politica nella sua fantasia, ma non programmatica né urlata. È la politica di chi crede che immaginare mondi diversi sia il primo passo per cambiarli. Per questo i suoi libri sono abitati da ribelli dolci e rivoluzionari che combattono con ironia e tenerezza invece che con la violenza.
Una delle conquiste più durature di Benni è stata dare alla letteratura italiana il ritmo della lingua parlata, senza scivolare nel banale. I suoi dialoghi suonano veri perché catturano non solo ciò che la gente dice, ma come lo dice: le pause, le esitazioni, i doppi sensi.
Non era mimesi, ma reinvenzione. Ha creato una lingua che sembra naturale ma è in realtà costruita con grande perizia, capace di passare dal colloquiale al poetico senza strappi, di far convivere la battuta fulminante e la metafora lirica, il turpiloquio e la delicatezza.
Oggi che Stefano Benni non c’è più, resta la sua lezione più importante: che la letteratura può essere popolare senza essere populista, divertente senza essere superficiale, accessibile senza essere banale. Ha mostrato che si può parlare ai molti senza tradire la complessità del mondo, far ridere senza rinunciare alla profondità.
In tempi in cui il dibattito culturale sembra diviso tra apocalittici e integrati, Benni rappresentava una terza via: quella di chi guarda al mondo con occhi critici ma non cinici, capace di cogliere il ridicolo senza perdere la compassione.
I suoi libri continueranno a far ridere e riflettere nuove generazioni. Ma il suo contributo più duraturo è aver mostrato che la letteratura può essere una forma di felicità condivisa, un modo per sentirsi meno soli nell’assurdità quotidiana. E questa è, forse, la forma più alta di impegno civile.