
Gramsci e la patrimoniale dei ceti medi
11 Novembre 2025
Meglio perdere che vincere
11 Novembre 2025
di Pierluigi Piccini
La legge approvata dal Parlamento nel settembre 2025 per il “riconoscimento e la promozione delle zone montane” è la quarta normativa organica sul tema dal dopoguerra e la prima che definisce lo sviluppo delle aree montane come obiettivo di interesse nazionale. Dopo decenni di disattenzione, si riconosce finalmente che la montagna non è un margine, ma una parte strutturale del Paese.
Sulla carta, la nuova Strategia Nazionale per la Montagna Italiana e il fondo da 200 milioni l’anno per il triennio 2025-2027 dovrebbero segnare una svolta. Ma dietro la cornice ambiziosa si nasconde un disegno incompiuto, incapace di affrontare la complessità reale dei territori d’altura.
Il primo limite è il centralismo decisionale.
La legge affida al Governo gran parte delle leve operative, rinviando a una pioggia di decreti attuativi la definizione dei criteri, dei beneficiari e perfino delle priorità. In un Paese dove la montagna assume volti diversi – dalle valli alpine alla dorsale appenninica, fino ai rilievi della Sardegna e della Sicilia – un approccio uniforme rischia di tradursi in inefficacia.
Le Regioni e le Unioni montane vengono citate ma non realmente coinvolte. Si continua a pianificare dall’alto, con logiche burocratiche che ignorano la conoscenza diretta dei territori e la capacità di autoprogettazione delle comunità locali.
I duecento milioni di euro l’anno previsti rappresentano una cifra modesta se confrontata con l’estensione e la fragilità delle aree montane italiane.
Senza un’integrazione strutturale con i fondi europei e con la programmazione del PNRR, il rischio è quello di costruire un contenitore normativo privo di sostanza.
Restano vaghe, inoltre, le misure per assicurare servizi essenziali – sanità di prossimità, scuole, trasporti pubblici, connettività digitale – che costituiscono la precondizione per ogni politica di popolamento. Senza abitabilità, non c’è sviluppo possibile.
Il testo privilegia la dimensione economica: turismo, agricoltura, bioenergie, recupero dei terreni abbandonati. Tutti obiettivi importanti, ma che confermano una visione utilitaristica della montagna, vista come serbatoio di risorse piuttosto che come spazio di vita e di relazione.
Si parla di “valorizzazione”, ma poco di diritto a restare, di manutenzione del paesaggio, di educazione alla cittadinanza montana. La montagna non è solo economia: è cultura, memoria, identità collettiva. Ignorarlo significa smarrire il senso stesso della permanenza umana in quota.
Sorprende il quasi totale silenzio sul cambiamento climatico, che nelle aree montane produce già effetti drammatici: perdita di biodiversità, erosione del suolo, frane, siccità e alluvioni.
Non un accenno alla gestione sostenibile delle foreste, alla filiera del legno-energia, né a progetti di autonomia energetica locale basati su fonti rinnovabili.
Eppure la montagna potrebbe essere un laboratorio avanzato della transizione ecologica, luogo di sperimentazione tra ambiente, energia e innovazione sociale.
Per regioni come la Toscana e per territori come l’Amiata, la nuova legge offre un quadro di riferimento utile, aprendo margini di finanziamento e programmazione. Ma non basta una cornice se mancano strumenti e autonomia.
Lo sviluppo della montagna non si decreta per legge: si costruisce con politiche territoriali coordinate, con il coinvolgimento delle comunità e con una visione di lungo periodo.
La sfida non è solo economica ma demografica, sociale e culturale: riportare vita, lavoro e servizi dove l’Italia si sta svuotando.
Oggi la montagna ha bisogno di fiducia e responsabilità, non solo di fondi.
Senza un reale decentramento delle decisioni e una strategia che metta al centro le persone e non le carte, questa legge rischia di restare un’occasione dimezzata – utile per annunciare, ma insufficiente per cambiare davvero.





