
CHE SIGNIFICA TORNARE OGGI (PER NOI, QUI)
14 Novembre 2025di Pierluigi Piccini
Il 25 novembre, a cinquant’anni dalla sua morte, la Fondazione Alleanza Nazionale organizza un convegno dal titolo “Pasolini conservatore”. L’operazione non è nuova: dopo aver tentato di arruolare Gramsci nella loro battaglia per l’egemonia culturale, ora tocca a Pasolini. Ma la manovra è altrettanto disonesta intellettualmente, e forse ancora più grottesca.
È vero: Pasolini fu un critico feroce della modernizzazione consumistica, del progressismo borghese, dell’omologazione culturale promossa dal neocapitalismo. Negli Scritti corsari attaccò il PCI per aver abbandonato il mondo contadino e sottoproletario, difese le culture popolari arcaiche contro la standardizzazione televisiva. Tutto questo può sembrare, a uno sguardo superficiale, “conservatore”.
Ma cosa si conserva davvero nel pensiero pasoliniano? Non certo l’ordine costituito, né i valori della borghesia italiana, né la tradizione cattolica istituzionale. Pasolini conservava — o meglio, piangeva la perdita irreversibile di — un mondo contadino, sottoproletario, precapitalistico: fatto di culture orali, di corpi non disciplinati dal consumo, di una sacralità pagana lontana anni luce dal perbenismo democristiano.
La sua critica alla modernizzazione era radicalmente anticapitalistica. Quando denunciava il genocidio culturale operato dalla televisione e dal consumismo, non difendeva la famiglia tradizionale o i valori dell’Occidente cristiano. Piangeva la scomparsa delle lucciole, dei dialetti, dei gesti antichi dei contadini: di un’Italia povera ma non ancora colonizzata dalla logica della merce.
Come si può chiamare “conservatore” un uomo che fu
– apertamente omosessuale in anni di persecuzione poliziesca;
– marxista eretico che non smise mai di definirsi comunista;
– sostenitore dell’aborto e del divorzio;
– critico spietato della DC, della borghesia italiana, del neofascismo democristiano;
– autore di opere come Salò e Teorema, che scandalizzarono ogni forma di moralismo tradizionale?
L’operazione della Fondazione AN segue la stessa logica già sperimentata con Gramsci: isolare le critiche che questi pensatori rivolgevano alla sinistra da sinistra — perché non era abbastanza radicale — e presentarle come anticipazioni delle posizioni della destra contemporanea. È un’appropriazione che funziona solo svuotando quei pensieri del loro contesto, della loro radicalità, della loro carica sovversiva.
Gramsci criticava il massimalismo operaista non per abbracciare il liberalismo, ma per costruire un’egemonia proletaria più efficace. Pasolini criticava il PCI non perché fosse troppo comunista, ma perché aveva tradito i sottoproletari per diventare partito di massa piccolo-borghese.
C’è qualcosa di rivelatore in queste operazioni: la destra italiana post-fascista ha un problema strutturale di legittimazione culturale. Non ha pensatori propri all’altezza di Gramsci o Pasolini. Deve quindi appropriarsi dei pensatori avversari, neutralizzandoli, addomesticandoli, rendendoli presentabili. E nella disperazione, non si può escludere che un giorno arrivi a riscoprire persino il Che, ridotto a santino ribelle e patriottico, svuotato del suo internazionalismo e della sua utopia egualitaria.
Ma Pasolini non si lascia addomesticare. Il suo pensiero resta scandalosamente vivo proprio perché non appartiene a nessuno schieramento: colpisce chiunque partecipi — destra o sinistra — alla distruzione delle culture popolari in nome del progresso economico o dell’identità nazionale.
Se oggi Pasolini fosse vivo, vedrebbe un Paese in cui la destra che lo celebra promuove esattamente quel consumismo, quel neoliberismo, quella televisione commerciale che lui considerava strumenti di un nuovo fascismo — più subdolo e totalitario di quello mussoliniano. Vedrebbe una destra che parla di “tradizione”, ma ha tradito — in nome del mercato — ogni forma autentica di vita tradizionale.
E vedrebbe anche una sinistra che ha compiuto il tradimento delle classi popolari che lui denunciava già negli anni Settanta, trasformandosi in partito delle élite urbane progressiste.
Forse la vera eredità di Pasolini non sta nell’essere rivendicato da destra o da sinistra, ma nel suo sguardo disperato e profetico su una modernità che distrugge sistematicamente ogni forma di vita non mercificabile. Uno sguardo che giudica, con uguale severità, chiunque partecipi a questa distruzione.
Per questo ogni tentativo di arruolarlo è destinato a fallire. Pasolini resta, ostinatamente, un corsaro. E i corsari non si fanno inquadrare in nessuna fondazione.





