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Ogni volta che compaiono titoli come “Siena capitale europea dell’agricoltura”, la prima domanda da porsi è semplice: su quali dati poggia questa definizione? Se guardiamo ai parametri che contano davvero – produzione, valore aggiunto, investimenti, innovazione, export – il nostro territorio non è paragonabile ai veri poli agricoli europei. Basti pensare alla Francia, dove l’agricoltura è un settore industriale maturo: grandi aziende, cooperazione strutturata, logistica avanzata, ricerca integrata nelle filiere. È un modello di scala e potenza produttiva che non ha equivalenti in Italia, né tantomeno a Siena.
Dentro questo quadro si inserisce l’entusiasmo per la cosiddetta Dop Economy. I suoi 20 miliardi sono reali, ma quasi sempre presentati in modo cumulativo, sommando produzione, trasformazione, export e indotto. È un settore importante, certo, ma riguarda solo una parte dell’agricoltura italiana e concentra la ricchezza in poche filiere forti. Spesso il rapporto tra marchi e sviluppo viene semplificato: si suggerisce che basti una certificazione per generare valore, mentre la realtà dipende da imprese competitive, governance solide e capacità di stare sui mercati internazionali.
La provincia di Siena ha eccellenze riconosciute, soprattutto nel vino, dove occupa un ruolo di primo piano a livello nazionale. Ma questa specializzazione non basta per accreditarla come “capitale” dell’agricoltura. Restano aperte questioni strutturali che la retorica non può eludere: crisi climatica, scarsità d’acqua, aumento dei costi, carenza di manodopera, ricambio generazionale insufficiente. È su questi fronti che si misura la solidità di un distretto agricolo, non sui titoli attribuiti nelle conferenze.
Parlare di qualità, tradizione, identità o autenticità ha un valore culturale, ma non costituisce una politica. L’agricoltura si sostiene con investimenti, ricerca, infrastrutture adeguate e innovazione nelle filiere, non con slogan altisonanti. Siena ha molto da offrire, ma per crescere deve restare ancorata ai dati, non ai proclami. L’agricoltura si difende con strategie di lungo periodo e lavoro concreto, non con l’autocelebrazione.





