
IL GENIO DELLA TARDA ETÀ
21 Dicembre 2025
Joni Mitchell – River
21 Dicembre 2025SPETTATORI PER UNA SETTIMANA
NUOVO CINEMA MANCUSO
Uno Shakespeare dopo l’altro
Uno Shakespeare tira l’altro, non si sfugge. Un anticipo c’era già quest’anno, ma siamo alla periferia dell’impero. Quindi dobbiamo pazientare fino al 22 gennaio per “Marty Supreme”, il film di Josh Safdie con Timothée Chalamet ossessionato dal tennistavolo (questo il nome da disciplina olimpica di quel che usavamo chiamare ping pong). Marty Supreme è il titolo di una pallina brevettata dall’aspirante campione, Chalamet avrà gli occhialini da nerd, e spera davvero che con questo film lo prenderanno sul serio come attore. Può consolarsi pensando a Leonardo DiCaprio, son passati anni e anni prima che lo prendessero sul serio.
Se fossimo in pari con le uscite americane – succede quasi solo con i blockbuster – avremmo già visto “Hamnet” di Chloé Zhao, uscito negli Stati Uniti a novembre e primo titolo della doppietta che omaggia Shakespeare. “Hamnet” vale come “Hamlet”, nel 1596 non si faceva tanto caso alla differenza. Il film racconta come il più bravo di tutti – ma i suoi contemporanei non ne erano certi, c’è voluto un po’ perché facesse ombra agli altri scrittori, non solo di teatro – arrivò a scrivere “Amleto”. Fa da guida il romanzo di Maggie O’Farrell “Nel nome del figlio. Hamnet” (Guanda). La scrittrice e la regista femminista puntano sul lutto per l’unico figlio maschio, morto undicenne. Il William Shakespeare di Paul Mescal deve stare al gioco, sa benissimo che chi scrive – per il cinema come per i teatro – ha sempre l’ultima parola.
Il secondo Shakespeare in arrivo è diretto da Riz Ahmed. Uscirà in Gran Bretagna il 6 febbraio prossimo, vedremo Amleto sfrecciare su una macchina sportiva, a Londra, mentre recita il suo “essere o non essere”. L’attore e rapper britannico di origine pakistana coltiva il progetto da tempo, non sarà il pallido principe della tradizione, bensì l’erede di un ricco costruttore.
Riz Ahmed aveva già adattato il testo quando ancora non aveva vent’anni, assieme a un amico. Entrambi avevano verso il testo un timore reverenziale, sparito quando si è unito a loro il regista Aneil Karia, che ha fatto il lavoro sporco, levando dal copione tutte le scene in cui Amleto non compare, e concentrando l’azione in poche ore. Shakespeare era piuttosto disinvolto nell’adattare storie altrui, non gli si fa certo un torto se lo si riscrive.
Alle riscritture non sfugge “Frankenstein”, dopo la meravigliosa versione di Guillermo del Toro. Maggie Gyllenhaal si dedica alla sposa che la creatura chiede con insistenza, e mai avrà, nel romanzo di Mary Shelley. Era un’aggiunta apocrifa della Universal: il successo del film con lo scienziato e la creatura invocava un seguito. “Bride!” è ambientato nella Chicago degli anni 30, l’attrice è Jessie Buckley, già moglie di Shakespeare per Chloé Zhao.
FATHER MOTHER SISTER BROTHERdi
Jim Jarmusch, con Adam Driver, Cate Blanchett
Non
siamo fan scatenati di Jim Jarmusch. L’unico film che ci ha davvero appassionato è “Solo gli amanti sopravvivono” (peraltro, a conferma, i fan lo hanno snobbato). Era una bella storia di vampiri nei quartieri dismessi di Detroit, con Tom Hiddleston e Tilda Swinton, eleganti come si deve (mica come quel buzzurro della Valacchia messo in scena da Luc Besson). “I momenti in cui la vita è attraversata da piccoli momenti di malinconia”, ha scritto uno spettatore conquistato alla causa. A noi non ha fatto lo stesso effetto. Il film è immerso in un bagno di tristezza, quella tristezza che non deriva da un dolore recente ma è stata scelta come filo conduttore. Altro che malinconia, son tre storie che fanno stringere il cuore, al netto di una recitazione discontinua: bravissima Mayim Bialik nel primo segmento, quando insieme ad Adam Driver va a trovare il genitore Tom Waits – e almeno questo ha un minimo di svolta finale. Sacrificata Cate Blanchett nel secondo episodio, è una delle figlie di Charlotte Rampling: da anni e da molti film l’attrice non sorride, certo non lo fa qui, con una figlia vestita da suora laica (ella si occupa di cultura) e una con i capelli rosa intonati ai pantaloni. Qui siamo a Dublino, si vedono una volta l’anno, e naturalmente ci sono lunghi e imbarazzati silenzi. L’ultimo segmento è a Parigi, due gemelli vanno a visitare l’appartamento che era stato dei genitori, morti in un incidente.
NORIMBERGA
di James Vanderbilt, con Russell Crowe, Rami Malek, Michael Shannon, Leo Woodhall
Russell
Crowe sta perfettamente a suo agio e si concede qualche vezzo recitativo, nei panni di Hermann Goering. Il nazista più alto di grado condannato a morte nel processo di Norimberga, anno 1945. Quando capì che le cose per lui si stavano mettendo male, chiese di essere fucilato. Ma il plotone di esecuzione gli fu negato, per lui c’era l’impiccagione. La notte prima che la sentenza fosse eseguita, inghiottì una capsula di cianuro. Il regista, che ha in curriculum la sceneggiatura di “Zodiac” diretto da David Fincher, mette in scena i duelli verbali – di potere e psicologici – tra l’imputato Hermann Goering e Douglas M. Kelley, psichiatra incaricato di valutare la saluta mentale del prigioniero, temevano che si sarebbe ucciso prima del processo. Lo strizzacervelli dà prova dei suoi talenti facendo un trucchetto con le carte, in treno e per corteggiare una ragazza. Nessun processo di quell’importanza era stato mai celebrato: Michael Shannon, a capo dell’accusa, sente di avere addosso gli occhi di tutto il mondo – un fiasco o un inciampo gli sarebbero fatali. Russell Crowe occupa la scena con piglio da mattatore, Rami Malek risponde con qualche smorfia di troppo. La sceneggiatura adatta il libro scritto sul vero Douglas Kelley da Jack El-Hai, pubblicato da Solferino: “Norimberga. Il nazista e lo psichiatra”. Manca la scena dell’arrivo di Goering al centro di detenzione americano in Lussemburgo: 16 valigie e una cappelliera rossa.
MONSIEUR AZNAVOUR
di Mehdi Idir e Grand Corps Malade, con Tahar Rahim, Bastian Buillon
Centottanta
milioni di dischi venduti sarebbero un record per chiunque. Molto di più per il figlio di rifugiati armeni che a Parigi stentavano la vita cucinando in piccoli locali e vivendo in stamberghe. Cantando, sempre. Ballando, se capitava l’occasione. Il piccolo Charles affronta per la prima volta il palcoscenico a 7 anni, accorciando il cognome di famiglia Aznavourian. La svolta arriva nel 1960, con un grande concerto all’Alhambra e finalmente gli applausi. Prima, una gran quantità di canzoni scritte e anche cantate, ma tutti scuotevano la testa sulla sua bravura di interprete: la voce era incrinata da una paralisi alle corde vocali, da bambino; il fisico minuto non era da tombeur de femmes. Assieme a Pierre Roche, dopo una tournée nella Francia occupata, tentò l’avventura americana. Senza il visto, sfacciatamente ottenuto sul posto, cantando. Poi l’occasione di una scrittura verrà da Montreal, Canada. Avevano attraversato l’Oceano per ritrovare l’amica Edith Piaf, che era in tournée, e che li aveva presentati a Charles Trenet. Aznavour tornò da solo a Parigi, deciso a sfondare. E ci riuscì, ostinato e fiducioso nelle sue capacità. Il film esce dalle gabbie del biopic, soprattutto grazie a Tahar Rahim. Per mesi l’attore – rivelato in tutta la sua bravura al Festival di Cannes 2009 dal film “Il profeta” di Jacques Audiard – ha parlato come Charles Aznavour. Ha imparato a cantare come lui, poi negli acuti le voci sono state mixate.
AVATAR – FUOCO E CENERE
di James Cameron, con Oona Chaplin, Sam Worthington, Zoe Saldana
Non
si sfugge. Noi, almeno, pur non essendo fan delle puntate precedenti. “Fuoco e cenere” dura interminabili tre ore e 17 minuti, compresi i titoli di coda che nel caso di un film come questo, quasi tutto di sintesi, neanche loro finiscono mai. Il regista James Cameron ha speso 400 milioni di dollari per farci passare un pomeriggio su Pandora con i noiosi Na’vi, indigeni altissimi e blu. Che siano altissimi, e che il blu sia a righe chiare e scure, il film se lo ricorda solo ogni tanto, quando (ri)comincia il conflitto con i soldati americani e con chi su Pandora ha mire di conquista commerciale. Avrebbe in testa altre due puntate, che in tutto farebbero cinque, ma bisogna capire come vanno gli incassi. Gli inizi non sembrano esaltanti, supera “Zootroplis” come miglior incasso della stagione, ma non tutti vanno volentieri a vedere i film d’animazione senza bimbi al seguito. A suo modo, è un film d’animazione anche “Fuoco e cenere”: salda le teste degli attori su corpi filiformi, con vitini da vespa e culi che non invocano censura. Tutto quel che fanno, in materia di conoscenza carnale, è prendere le lunghe trecce, sfilacciate e luminose all’estremità, e connettersi (il più delle volte alla terra madre che rianima e fornisce energia). New entry, per non morire di noia, la cattiva Varang di Oona Chaplin: comanda una tribù che alla terra preferisce la forza del vulcano. E via con i combattimenti, che prosciugano i milioni.





