
Rassegna stampa internazionale – Giovedì 23 dicembre 2025
23 Dicembre 2025DISARMARE ANCHE LA FAME
23 Dicembre 2025
C’è una frase che Giorgia Meloni ripete come un assioma: solo la forza tiene lontana la guerra. È una formula semplice, spendibile nei vertici internazionali, rassicurante per chi confonde la stabilità con l’equilibrio delle armi. Ma proprio mentre viene ribadita, il decreto sugli aiuti all’Ucraina si inceppa su una questione tutt’altro che marginale: le parole. “Militari”, “armi”, “armamenti a lungo raggio”. La maggioranza le pesa, le attenua, le sposta. La Lega chiede che scompaiano o che vengano coperte da un lessico umanitario. Non è un dettaglio tecnico. È il segno che quell’assioma non regge più senza crepe.
Il retroscena è rivelatore. Matteo Salvini non minaccia strappi, ma pretende una torsione politica e simbolica: aiuti sì, ma alla popolazione civile; logistica, ricostruzione, negoziato. È una posizione che intercetta una stanchezza diffusa, non tanto verso l’Ucraina quanto verso un linguaggio di guerra che sembra non prevedere una fine. Se davvero la forza fosse il fondamento della pace, non ci sarebbe bisogno di questi equilibrismi lessicali. La forza, quando è sicura di sé, non ha paura di nominarsi.
Qui il concetto può essere rovesciato. Non è vero che solo la forza tiene lontana la guerra. Spesso accade il contrario: è la forza, quando diventa principio e non strumento, a rendere la guerra permanente. La deterrenza promette sicurezza, ma produce abitudine al conflitto; trasforma l’emergenza in sistema, il decreto straordinario in rituale periodico. La politica, ridotta a contabilità di forniture, rinuncia a pensare l’uscita e si limita ad amministrare la durata.
In questo vuoto di immaginazione torna utile ricordare una voce inattesa. Da Che tempo che fa, ospite di Fabio Fazio, Roberto Benigni disse qualcosa che oggi suona come una confutazione gentile ma radicale: la pace non è debolezza, è la cosa più difficile che l’umanità abbia mai provato a fare. La guerra è sempre presentata come necessaria, inevitabile, “realistica”. La pace viene liquidata come utopia sentimentale. È un trucco linguistico: la guerra è la scorciatoia; la pace è il lavoro lungo.
Benigni richiamava la Costituzione e l’Europa non come simboli morali, ma come architetture politiche nate per spezzare un automatismo millenario: rispondere alla violenza con una violenza più grande. Ripudiare la guerra non significa negare la sicurezza; significa rifiutare che la guerra diventi la forma normale dei conflitti. La forza può fermare qualcuno, può congelare una situazione; non può fondare un mondo.
Ecco perché il ping pong delle parole nel decreto non è solo ipocrisia. È imbarazzo politico. È la consapevolezza, forse non dichiarata, che una pace fondata esclusivamente sulle armi è una pace senza tempo, cioè senza fine. Che se la forza diventa destino, la politica smette di essere decisione e diventa gestione del conflitto.
Il punto, allora, non è scegliere tra pacifismo e realismo. È decidere se accettare la guerra come paesaggio stabile o se avere il coraggio – più raro delle armi – di costruire un’uscita. La pace non è assenza di forza. È una forza più esigente, più esposta, più rischiosa. Ed è forse per questo che oggi fa così paura nominarla davvero.




