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Quando la fede smette di dire cosa crede
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Il nostro tempo si racconta attraverso frammenti lontani tra loro, che però finiscono per comporre un’unica trama. Dalla violenza armata alle periferie dell’economia globale, dalle migrazioni alla crisi della politica europea, fino alle domande sul senso ultimo della fede e della ricchezza, emerge un paesaggio segnato da profonde asimmetrie e da un diffuso smarrimento.
In alcune aree dell’Africa occidentale la violenza jihadista continua a colpire comunità civili, alimentando una spirale in cui terrorismo, repressione militare e fragilità statale si sovrappongono. Le risposte armate, spesso presentate come inevitabili, rischiano tuttavia di semplificare conflitti radicati in condizioni sociali estreme, nella competizione per le risorse e nell’assenza di prospettive economiche. La religione diventa così una bandiera sotto cui si nascondono fratture molto più profonde.
Un’altra faccia di questo stesso squilibrio globale appare nei luoghi dove finiscono gli scarti del benessere tecnologico. In alcune zone dell’Africa, montagne di rifiuti elettronici provenienti dall’Europa vengono smontate e bruciate per recuperare piccole quantità di metallo. Giovani uomini lavorano in condizioni nocive, esposti a sostanze tossiche, pur di ottenere un reddito minimo. È il rovescio della transizione digitale: mentre una parte del mondo celebra innovazione e sostenibilità, un’altra ne paga il prezzo ambientale e umano, invisibile ma costante.
L’Europa, dal canto suo, continua a fare i conti con la propria storia migratoria. A distanza di decenni dagli accordi che favorirono l’arrivo di lavoratori stranieri, riemergono biografie che raccontano percorsi molto diversi tra loro: fatica, marginalità, ma anche integrazione e successo. Quelle vicende mostrano quanto l’idea di una presenza “temporanea” fosse illusoria e quanto le società europee siano state trasformate in profondità da quelle migrazioni, spesso riconosciute solo a posteriori come parte integrante della loro identità.
La guerra in Ucraina resta un’altra ferita aperta del continente. Accanto alla cronaca militare, emergono storie individuali che parlano di perdita e di resilienza. C’è chi, dopo essere stato gravemente ferito, sceglie di non tornare al fronte e di dedicarsi invece al sostegno dei commilitoni colpiti come lui. In questi gesti si manifesta una forma di resistenza silenziosa, meno retorica e più umana, che prova a ricostruire legami dentro la distruzione.
Nel cuore dell’Europa occidentale cresce intanto un senso diffuso di instabilità. Le difficoltà di governo, i conflitti sul bilancio pubblico, la crisi dei servizi essenziali e l’avanzata delle destre alimentano sfiducia e disorientamento. La politica appare spesso bloccata, incapace di offrire risposte convincenti, mentre la vita quotidiana continua a essere segnata da problemi concreti come il costo della vita, l’accesso alle cure, la precarietà.
In parallelo circolano narrazioni di segno opposto, incentrate sul successo individuale e sulla possibilità di accumulare ricchezza. Storie di persone “normali” diventate benestanti grazie a scelte finanziarie o investimenti oculati alimentano l’idea che la prosperità sia soprattutto una questione di volontà e competenza. Ma queste narrazioni, pur legittime, rischiano di oscurare le disuguaglianze strutturali e di trasformarsi in miti rassicuranti, più che in modelli realmente replicabili.
Sul fondo di tutto riaffiora una domanda più radicale, che riguarda il senso stesso del credere. In una società secolarizzata, anche il linguaggio religioso sembra aver perso precisione e forza simbolica. Persino pensatori laici avvertono il rischio che la fede si riduca a formula vaga o identitaria, incapace di dire qualcosa di vero sull’esperienza umana. La questione non riguarda soltanto la religione, ma il bisogno diffuso di significato, di orientamento, di parole capaci di tenere insieme razionalità e speranza.
Ne risulta un quadro frammentato ma coerente: un mondo attraversato da conflitti, disuguaglianze, memorie migranti, crisi politiche e interrogativi spirituali. Un insieme di storie che, lette insieme, raccontano meglio di qualsiasi slogan la complessità del presente e la fatica collettiva di immaginare un futuro meno ingiusto e meno cieco.





