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Che un filosofo ateo come Jürgen Habermas si preoccupi per lo stato del cristianesimo dovrebbe far riflettere. Il suo allarme è semplice e duro: la teologia contemporanea tende a perdere determinatezza, a rinunciare a dire con chiarezza che cosa afferma. Nel tentativo di restare accettabile, dialogante, inclusiva, finisce per parlare in modo sempre più vago. Una fede che non osa più nominare i propri contenuti rischia però di diventare solo linguaggio edificante.
Il punto non è la modernità in sé. Il problema nasce quando, dopo Kant, la teologia perde il suo appoggio razionale tradizionale. Se Dio non può più essere conosciuto come oggetto del pensiero, occorre trovare un’altra via per parlarne. Da qui partono strategie diverse, tutte segnate da una stessa difficoltà.
C’è chi, come Schleiermacher, sposta tutto sull’esperienza religiosa: la fede non come verità da conoscere, ma come sentimento vissuto. Così però il contenuto si assottiglia e il cristianesimo rischia di ridursi a una forma generale di interiorità. C’è poi chi, come Hegel, tenta la strada opposta: reintegrare la religione nella filosofia, ma al prezzo di dissolvere la distanza tra Dio e mondo, fino a confondere fede e processo storico. In entrambi i casi qualcosa si perde.
Nel Novecento Barth reagisce con forza: basta adattamenti, basta compromessi. Dio non si lascia tradurre nei linguaggi della cultura, ma si rivela. Tuttavia anche questa via mostra un limite: più si insiste sull’alterità assoluta, più la teologia è costretta a lunghe giustificazioni preliminari prima ancora di parlare. La difesa diventa essa stessa un segno di fragilità.
Qui emerge il nodo vero. La teologia moderna vive dentro una tensione che non riesce a sciogliere. Se cerca la compatibilità con la cultura, rischia di svuotarsi. Se difende la propria specificità, rischia l’irrilevanza pubblica. Non è una scelta morale, ma una contraddizione strutturale.
È questo che Habermas coglie quando critica la “fede senza contenuto”: non un tradimento intenzionale, ma l’esito di un lungo tentativo di restare comprensibili. Il paradosso è che proprio lo sforzo di sopravvivere culturalmente può portare la religione a perdere ciò che la rende riconoscibile.
La questione, allora, non è tornare indietro né trovare una formula migliore. È riconoscere che il cristianesimo moderno vive in una tensione permanente tra fedeltà e traducibilità, tra dire ciò che crede e farsi capire da chi non crede. Una tensione che non si risolve con una sintesi teorica, ma che segna, nel profondo, la sua condizione presente.





