L’ottobre democratico. Come è nato e come è morto il Pd
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3 Ottobre 2022di Alessandro De Angelis
C’è chi parla di “ri-fondazione”, chi di “ri-generazione”, va di moda anche “ri-partenza” (dopo la sconfitta). E poi c’è chi vuole “ri-nominare” il Pd. È tutto un “ri”, come la parola che spiega il tutto, sconfitta e implosione: “ri-produzione” di un meccanismo, tanto oliato quanto gattopardesco, per cui si fa finta di voler cambiare musica, ma sono sempre gli stessi orchestrali a suonare.
E infatti proliferano i candidati per il congresso, perché il gioco è garantito: uno si candida, prende il dieci, il venti, poco importa, attorno a quel dieci, venti, si fa la sua corrente, e si garantisce il posto al prossimo giro. Congresso che ovviamente sarà “vero” e “costituente”, parola magica, per andare “oltre” senza dire “dove”, e già si capisce che non sarà nulla di tutto ciò perché con le regole attuali sarà solo una dinamica di correnti: si candida Tizio, si candida Caio, e Franceschini in mezzo decide chi vince.
Garante del tutto è l’imperturbabile Enrico Letta, che resta per “traghettare”. Né qualcuno di quelli che invocano il reset gli ha chiesto di dimettersi (a conferma della finzione), anche se aveva spiegato che c’era l’allarme democratico e ora i nipotini di Almirante sono al governo, ma evidentemente all’allarme non ci credeva nessuno. Anzi, nessun pericolo: auguri a Sandra, firmato Raimondo. E intanto non ce n’è uno, da Letta giù per li rami, che interrompa questa ricreazione per spiegare come si fa opposizione alla destra, nell'”autunno freddo” degli italiani.
Insomma, nemmeno la catastrofe elettorale è in grado di rompere il solito andazzo, anzi lo alimenta in un’ansia da tutela del posto in cui la cifra dominante è l’ipocrisia: parole senza peso e senza pathos, analisi auto-indulgenti perché “siamo il primo partito di opposizione” pur essendo l’ultimo nelle periferie che, ormai da anni, si sono affidate al cosiddetto populismo. E votato da un terzo dei suoi “turandosi il naso”, come ha spiegato impietosamente l’infallibile Ghisleri.
La sfasatura rispetto alla realtà è tutta in questa gestione ordinaria di una sconfitta straordinaria che mette in discussione i fondamenti di un partito che, da quando è nato, non ha mai vinto un’elezione e non è mai andato al governo col consenso popolare: cultura politica, gruppi dirigenti, identità. E, proprio perché metterebbe in crisi il “posto” di tutti, non si parla dell’unica cosa di cui si dovrebbe parlare: del fatto cioè che la sinistra “ha perso” perché “si è persa”, da anni, innanzitutto come ragione sociale: sradicamento dai territori e dal lavoro subordinato, espulsione dal cuore delle giovani generazioni, incapacità di inventare una narrazione e un popolo, che non è un dato sociologico, ma una costruzione politica.
E gli artefici di questa catastrofe sarebbero in grado di fare una Bad Godesberg o una Epinay? In attesa di un novello Brandt o Mitterand di questi tempi basterebbe un Nanni Moretti minore: “Con questi dirigenti non vinceremo mai”. Almeno, un segnale di vita.