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«Mi auguro che un giorno si arrivi alla soluzione dei due Stati e forse questa sarà la volta buona» spiega Moshe Kahn, pluripremiato traduttore dall’italiano al tedesco, raggiunto al telefono nella sua casa di Berlino. Ebreo tedesco emigrato in Svizzera durante la II guerra mondiale e grande conoscitore della letteratura italiana e dell’Italia – dove ha vissuto 30 anni – Kahn ha tradotto Primo Levi, Pier Paolo Pasolini, Roberto Calasso, Andrea Camilleri, Luigi Malerba e molti altri.
A New York centinaia di persone di fede ebraica hanno manifestato con la maglietta “Not in our name” chiedendo il cessate il fuoco immediato a Gaza. Qual è la sua opinione?
«Sono d’accordo con i manifestanti. Un cessate il fuoco è necessario per due motivi, perché ci sono ancora tanti ostaggi nelle mani di Hamas e quindi è essenziale che le trattative proseguano, anche se la loro liberazione sarà difficile da ottenere. E perchè il dramma dei palestinesi innocenti coinvolti è una tragedia tremenda ed è necessaria una tregua per portare aiuti umanitari, cure mediche, acqua e cibo. Bisogna lasciare passare chi è in fuga da Hamas. Perché bisogna ricordare che i palestinesi non sono Hamas. È una situazione complessa e ci si muove tra due poli, colpire Hamas ma non la popolazione civile, vittima di quell’organizzazione. Se dovesse esserci una manifestazione di questo tipo a Berlino, ci andrei».
Qual è il suo giudizio del governo Netanjahu dopo l’attacco di Hamas?
«Ho visto filmati sulla Bbc di quello che ha fatto Hamas perfino ai bambini, ai neonati. Ha tagliato braccia, teste. Ma come si può giustificare una cosa di questo genere? Non trovo nessuna spiegazione convincente. Quindi l’attacco era dovuto e Israele doveva assolutamente mettere fine a tutto questo».
Crede che la soluzione dei due Stati possa essere ancora praticabile?
«Potrebbe essere la volta buona che i politici israeliani capiscano che l’occupazione che dura da quasi 60 anni, dalla Guerra dei 6 giorni del 1967, è insostenibile. Allora era stata fatta con l’idea che un giorno si potesse arrivare alla soluzione dei due Stati. Io me lo auguro ancora, così come se lo augurano alcuni amici palestinesi in Cisgiordania. Nel dopo-guerra si dovranno iniziare trattative per una civile convivenza. Forse è una soluzione troppo poetica ma non ne vedo altre. Soltanto in una convivenza, l’odio si trasformerà con il passare del tempo in ragione. Sarà un processo lento, una decina d’anni almeno. Ma ci vuole giustizia e ragione per arrivare alla pace. Intendo giustizia per i palestinesi, che devono riavere le terre rubate dai coloni».
Che cosa pensa del governo attuale di Israele?
«Ho sempre sostenuto che il pericolo per Israele, dalla prima Intifada in poi, viene dall’interno del Paese, non da fuori. Il pericolo non viene dagli Stati vicini, ma dai primi ministri di destra israeliani che non hanno a cuore il destino del Paese ma se stessi. Sono egocentrici, narcisisti come quest’ultimo, Benjamin Netanyahu. È da 30 anni in politica e non ha ottenuto niente, ha solo prodotto un odio maggiore. Il problema dei politici israeliani di destra è che non hanno fatto alcun passo avanti per facilitare la convivenza tra i due popoli, ma pensano solo a ingrandire Israele, favorendo l’estensione degli insediamenti con la giustificazione che 3000 anni fa Dio ha promesso loro quelle terre».
Qual è il problema di questo tipo di argomento?
«Intanto da allora è trascorsa una bella fetta di storia e non possiamo fare finta di non saperlo. Ma poi c’è anche la mancata conoscenza di un libro molto importante del Vecchio Testamento, il Libro dei Giudici (il cui episodio più noto è Sansone e Dalila) che racconta la storia tra gli ebrei e filistei, i palestinesi di allora. È un libro che nessuno conosce e che spiega l’antico disaccordo. Ecco, se si mette in campo la promessa di Dio di 3000 anni fa e si omette il Libro dei Giudici, allora è una visione della storia molto unilaterale».
E la sinistra israeliana che ruolo ha giocato?
«I governi laburisti hanno cercato in vari modi di arrivare ad un accordo con i palestinesi. Purtroppo questi avevano a rappresentarli Yasser Arafat che non era un visionario e alla fine non si è arrivati a un accordo duraturo. Invece i governi di destra israeliani sono votati in gran parte -e lo dico con amarezza – da immigrati russi e dai coloni americani che si comportano negli insediamenti come fossero nel Far West».
Torniamo in Europa. Il jazzista ebreo Coco Schumann, sopravvissuto ad Auschwitz e Dachau, ricordava così la lezione tratta dall’esperienza dei campi: tenere sempre una valigia pronta. Lei ha paura del crescente antisemitismo e ce l’ha una valigia pronta?
«Sì, ho paura e come tanti altri amici ebrei qui in Germania abbiamo tutti una valigia pronta. Anche io ho la mia valigia simbolica già fatta. Il problema è che non sappiamo bene dove andare ora. Ho 82 anni ma sono sempre pronto a partire se è necessario».