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“L’Europa si è lasciata sfuggire la rivoluzione digitale trainata da Internet e gli aumenti di produttività che ne sono conseguiti: infatti il divario di produttività fra Unione europea e Stati Uniti è in gran parte dovuto proprio al settore tecnologico”. Non l’ennesimo lamento di uno smanettone impenitente, ma la pacata e lucida constatazione dell’ex premier Mario Draghi, in uno dei passaggi centrali del suo report sul futuro dell’Unione.
I dati riportati dal documento parlano chiaro: proprio la fragilità della domanda aggregata, in particolare quella dei grandi spezzoni pubblici, come scuola, sanità e difesa, rendono il comparto digitale continentale del tutto inadeguato alla competizione globale con Stati Uniti e Cina. Solo quattro delle cinquanta grandi imprese che guidano il mercato tecnologico sono europee. Ma soprattutto è la subalternità complessiva alle tutele americane, sia in campo digitale sia in quello della sicurezza, che Draghi mette in discussione. Il legame fra il deficit computazionale con le altre due emergenze denunciate dal rapporto, quali la questione energetica indotta dalla decarbonizzazione e le strategie di difesa, rendono sempre più necessario un protagonismo europeo forte rispetto alle politiche americane. Non a caso, proprio nel suo dibattito con Trump, la candidata democratica Kamala Harris ha esplicitamente indicato la supremazia americana nel quantum computing e nell’intelligenza artificiale.
È un dato non da poco per un atlantista convinto com’è stato il dirigente delle massime istituzioni finanziarie europee. Tanto più che parla nel pieno di un ulteriore tornante, che ci sta conducendo a una nuova metamorfosi tecnologica, con l’avvento delle risorse di intelligenza artificiale che minacciano di allargare ancora di più il fossato che divide l’Europa da Washington e da Pechino.
Basti pensare che, solo nel 2021, l’insieme delle imprese private europee ha speso in ricerca e innovazione 270 miliardi in meno delle imprese americane. Il buco nero individuato è il legame fra sistema di ricerca e formazione – gli apparati universitari, in sostanza – e il mondo delle aziende. Un legame che non produce valore né rispetto alle attività accademiche né, tanto meno, rispetto alla semina industriale. Per il nostro Paese torna la sentenza pronunciata nei giorni scorsi dal governatore della Banca d’Italia, che ha dichiarato che l’Italia è l’unica nazione europea a spendere per gli interessi sul debito più di quanto non investa nella scuola. In quei pochi casi in cui il cortocircuito funziona, in mancanza di una strategia di copertura e sostegno, ci si trasferisce in California, come ha fatto più di un terzo degli “unicorni”, le start up che arrivano a superare un miliardo di capitalizzazione.
Il nodo dunque è nel ricostruire il dinamismo europeo, all’insegna di un keynesismo tecnologico. Draghi ha parlato di risorse da impegnare, circa ottocento miliardi di euro all’anno, equivalenti ad almeno il doppio del piano Marshall, che rimise in piedi i Paesi che uscivano dalla guerra. Una traccia che la sinistra dovrebbe cogliere e approfondire: un’Europa che investa sulla sua autonomia, per svilupparsi e non per affermare questioni ideologiche. Ma, se dobbiamo mettere in campo una quantità tale di risorse pubbliche, quale strategia dobbiamo seguire? Dobbiamo riprodurre il modello americano, sostituendo al venture capital privato le finanze comuni, oppure dobbiamo mutare completamente direzione rendendoci conto che la Silicon Valley non è un sistema riproducibile?
Qui il rapporto di Draghi diventa quanto mai vago e generico. Infatti è questo il punto di rottura su cui ricostruire prospettive e alleanze socio-politiche: chi sono i soggetti portanti di questa strategia che vede nel quantum computing e nell’intelligenza artificiale una nuova fase di ristrutturazione delle relazioni personali e produttive? Il grande assente, nell’elaborazione di Draghi, è l’open source, una strategia che sta già riclassificando lo stesso mercato americano, aprendo spazi nella personalizzazione e finalizzazione degli algoritmi generativi di rilievo, dando all’offerta tecnologica flessibilità e spazi di riprogrammazione artigianale.
Su questo sarebbe indispensabile mettere in campo le voci della sinistra, a partire dalle forze organizzate e dal sindacato, ma anche dalle associazioni professionali e dal mondo della ricerca. Il “campo largo” non potrà non essere un campo digitale.