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Nel 2005, una telefonata divenne emblematica: “Allora, abbiamo una banca?”. Era Piero Fassino, era il caso Unipol-Bnl, ed era l’illusione – poi crollata – che la politica potesse mettere le mani sulla finanza senza conseguenze. A distanza di vent’anni, quella frase torna d’attualità, in un contesto completamente diverso ma con dinamiche sorprendentemente simili.
Unicredit ha ricevuto il via libera dell’Unione Europea per l’acquisizione di Banco Bpm. Ma è un sì condizionato: Bruxelles chiede la cessione di 209 sportelli per evitare concentrazioni eccessive. L’operazione potrebbe ripartire dal 24 giugno, ma il vero nodo politico si scioglierà il 9 luglio, quando il TAR si pronuncerà sul golden power esercitato dal governo, che ha bloccato l’operazione.
Da mesi, le grandi manovre bancarie italiane sembrano aver perso la loro natura industriale per trasformarsi in strumenti di ridefinizione del potere economico. Le offerte su Mediobanca, Generali, Mps e Banco Bpm – tutte legate, direttamente o indirettamente, a interessi politici – rivelano una volontà esplicita di riorganizzare dall’alto gli equilibri del credito e della finanza italiana. Dopo le telecomunicazioni e la logistica, ora anche le banche sembrano tornate sotto assedio politico.
Andrea Orcel, ceo di Unicredit, ha parlato chiaro: “Se le condizioni non sono sostenibili, ci ritireremo”. La banca, in crescita solida e autonoma, non è disposta a sacrificare valore per logiche che nulla hanno a che vedere con il mercato. Un approccio opposto a quello che sembra emergere da alcune aree del governo, dove si rincorre un progetto di accentramento del potere finanziario intorno a pochi poli controllabili: Mps, Mediobanca, Generali.
Anche per Banco Bpm, i dubbi non mancano. Il suo ceo, Giuseppe Castagna, ha espresso preoccupazione per le ricadute della cessione degli sportelli: territori chiave, servizi ridotti, occupazione a rischio. Intanto, mentre il mercato discute di sinergie e costi, la politica si muove con logiche di controllo, spesso opache.
Il paradosso è che mentre l’Europa – BCE, FMI, Bundesbank – spinge per più integrazione bancaria e per fusioni transfrontaliere che rendano il sistema europeo più solido e competitivo, l’Italia torna a chiudersi. Non si favoriscono aggregazioni per creare campioni continentali, ma si bloccano operazioni industriali per difendere equilibri interni. E si rischia così di danneggiare la fiducia dei mercati internazionali, che già guardano al nostro Paese con crescente incertezza.
Non è questione di destra o sinistra. È una dinamica che si ripete ciclicamente. Se ieri era Fassino, oggi sono Giorgetti, Salvini, Osnato. Cambiano i nomi, resta intatta la tentazione della politica di entrare nelle banche non per riformarle, ma per orientarle. Ma una finanza soggetta a logiche di potere è una finanza debole. E un Paese senza un mercato dei capitali aperto, trasparente e credibile non può crescere davvero.
Unicredit, per ora, va avanti da sola. Ha dimostrato che si può crescere senza fusioni forzate, con risultati solidi e una strategia chiara. Ma la vera domanda resta: chi avrà, davvero, una banca? E soprattutto: a quale prezzo?