Dopo tutto, scrisse pochi anni fa Belting concludendo con sapiente semplicità decenni di polemiche con i colleghi storici dell’arte, «vogliamo immagini per farci un’idea di qualcosa». Chiamare arte solo alcune di quelle immagini, separarle dalle altre, considerarle solo come magnifici artefatti, non le solleva da quel più vasto compito che hanno assolto in millenni di storia umana. Controverso, trasversale, a tratti provocatore, Hans Belting ci ha lasciato martedì, a Berlino, all’età di 87 anni, dopo aver demolito la plurisecolare egemonia dell’estetico sul visuale. Più semplicemente: dopo aver decretato (nel 1983 con un punto interrogativo, che poi tolse nell’edizione di dodici anni dopo) La fine della storia dell’arte. Al cui posto, nella sua visione, doveva subentrare, appunto, una Bildwissenschaft, una scienza delle immagini intese come prodotto e risposta a un’esigenza umana di conoscenza, di pensiero, di fede propria dell’umanità. Gli diedero per questo, pensando di espellerlo dal recinto della loro disciplina, dell’antropologo. E invece è proprio grazie alla sua critica implacabile ai miti di un’arte universale, eterna e “senza utilità” se ora possediamo strumenti intellettuali adeguati ad affrontare un’epoca in cui l’intelligenza artificiale sembra voler chiudere, lei sì di prepotenza, i millenni della creatività umana. Era nato in una piccola antica città del bacino del Reno, Andernach, demolita dai bombardamenti alleati il giorno di Natale del 1944: fu forse quel trauma, e poi dover crescere in un mondo in cui ogni certezza e ogni fede si erano sbriciolate in macerie, a risorgere in lui quando, giovane storico dell’arte medievale (studiò anche a Roma), cominciò a chiedersi se davvero, come sosteneva un radicato idealismo alla Malraux, l’arte fosse un eden universale dello spirito,senza storia e senza geografia. Per rispondersi di no, che quel concetto fu inventato nel Rinascimento dagli artisti (Vasari in prima fila) per gli artisti, che ne ricavarono una inedita legittimazione sociale. Al costo però di avviare quel processo di sterilizzazione delle immagini dalle loro funzioni sociali e culturali (in primo luogo, il culto) che avrebbe portato alla nascita del museo, macchina possente di asportazione del senso e del contesto storico a favore di un puro approccio emozionale (per gli esteti) o contenutistico (per gli iconologi). Ogni opera, ha scritto Belting, «è così profondamente intrecciatacon il materiale, la tecnica, il contenuto, la funzione e lo scopo che non può essere semplicemente estratta come forma pura».
Fu con lo studio delle icone bizantine (La vera immagine di Cristo), suo primo banco di prova, che questa convinzione maturò in lui fino a diventare un metodo di analisi di campi molto eterogenei della cultura visuale: dalla sua indagine sul volto (Facce)come artefatto culturale della storia e vero e proprio medium sociale, all’arte religiosa medievale (per lui la vera “età dell’immagine”), alla riconsiderazione, in dibattito con Panofsky, della “forma simbolica” della prospettiva rinascimentale (I canoni dello sguardo), a suo giudizio non inventata da Alberti ma carpita agli arabi di Alhazen e poi cambiata di segno: da speculazione astratta sulla visione a strumento di domino visuale del mondo. Da ciascuna delle numerose cattedre che ha calcato (Amburgo, Monaco, Heidelberg, Karlsruhe) Belting ha indagato “l’arte prima della storia dell’arte”, prima cioè che una nuova disciplina creasse il proprio oggetto e pretendesse imperialisticamente di estenderne la portata anche a epoche e opere concepite quando quel concetto non esisteva ancora.
Ed è questa idea, di immaginiche “accadono” nella storia, negoziate con essa anziché non forgiate da menti eccelse e isolate, che ci serve oggi, quando le nuove tecnologie digitali, «strutturate per fare riferimento alla nostra ingenuità visiva», cercano di convincerci di «una presunta liberazione totale da ogni forma dimimesis », cioè cercano di nascondere l’inevitabilità del loro riferimento al mondo reale, di nasconderci che hanno una funzione e uno scopo, spesso di profitto e di potere. La distinzione tra analogico e digitale come frattura fra arte dell’uomo e arte della macchina è per Belting “una trappola” che rischia di trasformare il concetto stesso di arte in polverosa archeologia. Ma se la storia dell’arte è finita, nel senso di limitata ai pochi secoli in cui ebbe una funzione storica, le immagini, invece, continuano ad essere la risposta che gli occhi danno alle domande della mente.