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Il quadro che emerge è quello di un continente in piena ridefinizione politica, dove la parola chiave non è più “stabilità”, ma “controllo”. Controllo del territorio, della narrazione pubblica, delle risorse e dei tempi della transizione. In questa fase, l’Africa non arretra: si irrigidisce.
Nel Sahel, l’asse formato da Ibrahim Traoré, Assimi Goïta e Abdourahamane Tiani prova a trasformare la rottura con l’ordine regionale precedente in un progetto strutturato. L’unità esibita non è solo simbolica: punta a un’integrazione militare più stretta, a strumenti finanziari autonomi e a un ecosistema mediatico controllato. È una sovranità “difensiva”, costruita contro interferenze esterne ma anche contro opposizioni interne. I ritardi, le rigidità, le frizioni organizzative rivelano però un limite evidente: l’alleanza funziona meglio come messaggio politico che come macchina istituzionale.
Più a ovest, il Senegal mostra una frattura diversa ma altrettanto profonda. Il ritorno sulla scena giudiziaria di Ousmane Sonko segnala un nodo irrisolto tra legalità formale e legittimità popolare. Qui non c’è un colpo di Stato, ma una tensione permanente tra apparati e società, che mette alla prova una delle democrazie considerate più solide dell’area. La giustizia diventa terreno politico, e il rischio è una polarizzazione lunga, corrosiva.
La Guinea si muove in una zona grigia. La promessa elettorale convive con un potere fortemente personalizzato attorno a Mamadi Doumbouya. La transizione è formalmente in corso, ma resta incerta nella sostanza: il passaggio dal controllo militare a un ordine civile rischia di essere più cosmetico che reale. Il consenso è cercato più attraverso il racconto dell’“ordine ristabilito” che tramite un vero pluralismo.
Sul fronte economico, il Gabon è l’emblema di un modello estrattivo arrivato a maturazione. Il petrolio non basta più a garantire rendite facili, e senza un quadro politico credibile gli investimenti esitano. La questione energetica diventa così una questione di governance: non è la risorsa che manca, ma la capacità di renderla strategica nel lungo periodo.
Il Marocco, spesso percepito come spazio di stabilità, rivela invece crepe inquietanti. I casi di sparizioni e sequestri, incluso quello di Clément Besneville, incrinano la narrazione di uno Stato pienamente sotto controllo. Anche qui emerge un tema ricorrente: sicurezza e diritto non sempre procedono insieme.
Infine, il Benin di Patrice Talon rappresenta una figura-tipo sempre più diffusa nel continente: leader efficienti, riformatori, ma progressivamente impermeabili al dissenso. Il decisionismo produce risultati visibili, ma restringe gli spazi politici, alimentando un’autorità che si giustifica con l’efficacia più che con la partecipazione.
Nel complesso, l’Africa che si delinea non è marginale né passiva. È un continente che cerca di riappropriarsi del proprio destino, ma lo fa spesso attraverso scorciatoie autoritarie, poteri personalizzati e sovranità armate. La vera questione aperta non è se l’Africa stia cambiando, ma se questo cambiamento saprà trasformarsi in istituzioni durevoli, e non solo in leadership forti.





