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14 Dicembre 2025Divano La rubrica settimanale di arte e società. A cura di Alberto Olivetti
Nel 1950 Bernard Berenson pubblica Alberto Sani. Un artista fuori dal suo tempo, presso Electa. Scrive: «L’amico Dario Neri mi parlò un giorno di un boscaiolo nelle sue terre di Campriano, fra Siena e la Maremma. Ormai prossimo alla cinquantina e quasi cieco, questo Alberto Sani scolpiva in legno e in pietra fino dal 1921. Quanto udivo di lui mi rese curioso, e chiesi al Neri di condurmi a vedere le sue cose». Berenson entra nella stanza dove Sani riponeva via via i suoi lavori: «L’occhio, movendo in giro, sembrava cogliere in un primo momento solo rappresentazioni che avrebbero potuto arricchire, con scene di vita giornaliera, la doppia fila dei sarcofagi paleocristiani lungo la scala del Museo Laterano a Roma».
Quei rilievi sembrano risalire al tempo della «scultura funeraria e politica della tarda antichità», giudizio che Berenson ribadisce nei puntuali commenti che dedica ad un cospicuo numero di opere realizzate dal Sani nell’arco di un trentennio. Sani, «rustico scalpellino», gareggia con gli antichi artefici. Non ha da temere il confronto, giacché, constata Berenson, troppe volte ne esce vincitore. A tal punto il boscaiolo possiede il talento di conferire una altrettanto plastica rilevanza, nei moduli formali della convenzione tardo antica, agli «sfondi arborei», alle «ombre fonde», al «fogliame fortemente stilizzato».
Insomma, Sani è, compiutamente, «affine ai suoi predecessori di quindici secoli orsono. Analogo l’uso dello spazio, eguali le proporzioni delle figure, pressoché identica l’insistenza nell’indicare tensione e distensione dei muscoli, piglio delle mani». E conclude: «Due artisti coevi non potrebbero assomigliarsi di più». Per Berenson Sani è, «nel suo intimo», ontologicamente, un Romano della Decadenza. E, dell’essere suo, l’opera sua dà conto integralmente. Del resto, Berenson ha un suo convincimento, «cui arrivai tanti anni fa: ossia che dato un simile modo di sentire, una simile tecnica, una simile materia, i risultati non possono non esser simili fra loro».
Dunque, a parere di Berenson, la permanenza formale di un canone artistico resta intatta e replicabile nel corso dei secoli se l’esecuzione dell’opera si attiene al modus operandi (il procedimento operativo) che quel canone realizza.
E, allora, dobbiamo chiederci come, con quali attrezzi e a quali supporti materiali Sani si affida nella realizzazione delle sue sculture? Tabelle di tufo dello spessore tra i 5 e i 10 centimetri del formato, salvo rare variazioni, di 40×40 centimetri. Gli attrezzi, (sgorbie, lime, punteruoli, raspe, martelletti, succhielli e quant’altro) se li era costruiti con le sue mani. Nella mostra «Alberto Sani.
Quando la scultura diventa poesia» che accoglie quarantotto opere dell’artista (allestita a Siena nel Palazzo Pubblico e aperta fino al maggio dell’anno prossimo) è opportunamente esposta la sua cassetta degli attrezzi.
Dunque, come lavorava Sani? Preziosa la testimonianza di Paolo Cesarini (1911-1985), fine scrittore e cultore delle arti, nel suo Alberto Sani storia inedita di uno “scultore di quadri” che stese nel 1985. Sono pagine di straordinaria intensità che ci accostano alla figura e all’opera di Sani, del quale Cesarini fu amico, assiduo e vicino per più di un decennio, dai primi anni Cinquanta alla morte dell’artista nel febbraio del 1964. «Scolpiva al suo deschetto da ciabattino» il tufo, rammenta Paolo Cesarini, ma ci dice anche che Sani «non usava mai il verbo scolpire, ma lavorare», e che gli altorilievi che realizzava erano dallo scultore chiamati «quadri».
Racconta: «Io correvo subito con lo sguardo alla tabella di tufo che aveva a mano sul deschetto, così m’accadde di vederne a tutti gli stadi, da quando impostava il lavoro segnandone le parti principali con un fusello di carbone dolce sulla facciata da scolpire, all’estremo finale, che era il ripercorrere ogni particolare con i polpastrelli per scoprire le asperità sfuggitegli fra una scalpellata e l’altra da togliere con un ferruzzo più tagliente. Mai una volta ebbe dei pentimenti o peggio abbandonò una scultura prima d’averla finita, o che più tardi ne rifiutasse una». Perché Sani il suo quadro, come disse a Berenson, l’ha sempre «tutto nella mente».




