È partito lunedì 19 febbraio alla Corte Internazionale di Giustizia un secondo procedimento riguardante Israele. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite, del cui sistema fa parte la Corte dell’Aia, ha richiesto un pronunciamento sullo status legale dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est. Diversamente dalle accuse di genocidio rivolte a Israele dal Sudafrica e sulla quale la Corte si esprimerà giudiziariamente, potendo quindi stabilire degli obblighi per Israele, in questo caso darà un parere non vincolante. Tuttavia, le dichiarazioni fornite alle udienze da più di 50 paesi e la successiva opinione della Corte, potrebbero avere forti ripercussioni politiche e diplomatiche sullo Stato ebraico alle prese con crescenti pressioni internazionali, sia sulla condotta della guerra a Gaza, la quantità di vittime civili e l’imminente attacco alla zona di Rafah, sia per la violenza di gruppi di coloni e l’espansione dei loro insediamenti nei Territori occupati.
«Il genocidio in corso a Gaza è il risultato di decenni di impunità e inazione. Farla finita con l’impunità di Israele è un imperativo morale, politico e legale» ha dichiarato alla Corte Riyad al Maliki, ministro degli Esteri dell’Autorità palestinese, che esercita un controllo limitato in parti della Cisgiordania. «L’unica soluzione coerente col diritto internazionale è che questa occupazione illegale finisca in immediatamente, in maniera incondizionata e totale» ha inoltre detto Riyad al Maliki. Il ministro ha accusato Israele di aver sottoposto i palestinesi a decenni di discriminazione e apartheid, mettendoli nella condizione di potere solo scegliere tra «espulsione, sottomissione o morte».
Negli anni Israele, che ha occupato quei territori, incluso la Striscia di Gaza, nel 1967 dall’Egitto e dalla Giordania, ha invece sostenuto che quei territori sono stati appunto occupati durante una guerra con quei due Paesi e non sottraendoli a uno Stato sovrano palestinese. Israele si è formalmente ritirato da Gaza nel 2005, obbligando migliaia di coloni ad andarsene dalla Striscia, ma ha continuato ad esercitare una serie di poteri e funzioni nell’enclave, come il controllo delle frontiere insieme all’Egitto, oppure la somministrazione di acqua ed elettricità e l’ingresso di aiuti umanitari. Ha invece essenzialmente annesso Gerusalemme est nel 1980 e non considera quella zona come territorio occupato.
La Corte vedrà sfilare in sei giorni, fino a lunedì prossimo, rappresentanti di più di 50 stati. Dovrà rispondere fondamentalmente a due quesiti posti dall’Assemblea generale, su richiesta dei Palestinesi, che hanno status di Paese osservatore all’Onu, approvata a fine dicembre del 2022 da 87 paesi, con l’astensione di 52 stati e il voto contrario di 23. Il primo riguarda quali sono le conseguenze legali della «continua violazione» da parte di Israele del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e della prolungata occupazione, costruzione di insediamenti e annessione di territorio palestinese occupato dalla fine della guerra dei sei giorni. In questo quesito si fa anche riferimento a «misure mirate ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status di Gerusalemme».
Il secondo quesito invece interroga la Corte su come le politiche israeliane influenzano lo status legale dell’occupazione e quali possano essere le conseguenze legali per tutti gli altri Stati e per le Nazioni Unite. «Questa seconda parte riguarda gli obblighi degli Stati terzi. Quindi, è probabile che l’opinione della Corte influenzi come molti stati interpretano il diritto internazionale. Se la Corte giudica che l’occupazione dei territori è illegale e che Israele debba fare passi concreti affinché finisca velocemente, vedremo come risultato che paesi tradizionalmente amici e alleati di Israele faranno più pressioni di prima» spiega a Domani Yuval Shany, professore di diritto internazionale all’Università ebraica di Gerusalemme.
«I due procedimenti testimoniano che l’approccio in anni recenti alla questione palestinese, sottovalutata e considerata marginale dagli ultimi governi guidati da Benjamin Netanyahu, gli si sta ritorcendo contro, alla grande, sia militarmente che diplomaticamente» dice il docente.
Sarà quindi importante, conclude Shany, ascoltare che posizione prenderanno i vari Paesi, soprattutto gli alleati di Israele. Ciò che diranno darà un’indicazione del sentimento globale sulla questione. La Corte emetterà il suo giudizio non vincolante fra alcuni mesi, probabilmente entro l’anno, dopo aver ascoltato rappresentanti di Paesi come gli Stati Uniti, l’alleato più importante di Israele, che aveva votato contro la richiesta dell’Assemblea generale alla Corte, come anche la Germania ed il Regno Unito, ad esempio, e della Cina, Russia, Sudafrica, Iran, Egitto e Libano.