Tornano come una risacca silenziosa, incuneandosi nei gangli complessi della macchina pubblica quando a presidiarla ci sono guardiani distratti.
Il fenomeno dell’inserimento dei grandi vecchi della prima repubblica nei luoghi del potere del governo di Giorgia Meloni è riemerso ancora una volta. Dopo Luciano Violante e Sabino Cassese, è riapparso anche Giuliano Amato, nominato a presiedere una Commissione che si occuperà delle ripercussioni dell’intelligenza artificiale sull’editoria.
IL RITORNO DI AMATO
Dimenticate le dichiarazioni dell’ex presidente della Consulta sui segreti di Ustica che hanno fatto passare qualche difficile pomeriggio al governo, la nomina è stata voluta dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, l’azzurro Alberto Barachini.
In sè potrebbe apparire un ruolo di ripiego per un nome come Amato, che nei suoi quarant’anni di istituzioni è stato alla Camera, al Senato, ai ministeri di Interni, Tesoro e Riforme, a palazzo Chigi e alla Corte costituzionale, a cui manca solo il Quirinale tra i palazzi delle istituzioni. Eppure proprio questa nuova attestazione di stima da parte dell’esecutivo di centrodestra testimonia, per l’ennesima volta, il vuoto di classe dirigente d’area ma anche la capacità di riempire i vuoti di illustri esponenti considerati di centrosinistra, i quali però si sono sempre fregiati del titolo di pontieri con la destra.
Amato, infatti, ha mantenuto un filo di contatto costante con uno degli spauracchi della sinistra come Silvio Berlusconi: fu il Cavaliere, infatti, a nominarlo presidente dell’Antitrust nel 1994 e che, nel 2015 lo immaginò presidente della Repubblica di compromesso. Era ancora in vigore il patto del Nazareno e, su sponsorizzazione di Denis Verdini, Amato avrebbe dovuto essere il nome di mediazione tra il Cavaliere e l’allora segretario Pd, Matteo Renzi, che però poi virò su Sergio Mattarella.
L’ottantacinquenne ex premier socialista, però, è in ottima compagnia. Il governo Meloni, infatti, ha già bussato alla porta di altri due grandi vecchi, anche loro considerati riserve della repubblica del centrosinistra ma mai disdegnati anche a destra: Luciano Violante e Sabino Cassese.
L’INAMOVIBILE VIOLANTE
Nel corso degli ultimi anni l’ex presidente della Camera Luciano Violante ha lentamente cambiato pelle, dismettendo quella di ex dirigente prima del Pci e poi del Pd, per sostituirla con un’immagine più tecnica. Sempre con una sfumatura di parte, ma attentamente coltivando le sue amicizie nell’alveo del centrodestra. La più importante è quella con l’ex collega magistrato e oggi potentissimo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, che non a caso non viene dal mondo della destra sociale che ancora guarda Violante con diffidenza, a cui non è bastato il suo storico intervento del 1996 di pacificazione sui «ragazzi di Salò» per dimenticare il suo passato comunista e di giudice che indagò sulle trame nere degli anni Settanta.
Il suo rapporto con il governo è un fatto certificato: nei mesi scorsi è stato investito della carica di presidente del Comitato per gli anniversari nazionali, la valorizzazione dei luoghi della memoria e gli eventi sportivi di interesse nazionale e internazionale. Una attività a titolo gratuito tanto altisonante quanto nebulosa, che però ne certifica il legame con la galassia di palazzo Chigi.
Ma, soprattutto, a pesare nel curriculum è l’attività lautamente retribuita con 300 mila euro l’anno di presidente della fondazione Leonardo-Civiltà delle macchine. Violante guida la fondazione – un piccolo paradiso dal bilancio di 3 milioni di euro che fa capo a Leonardo – sin dalla sua istituzione nel 2019 da parte di Alessandro Profumo e per i primi tre anni lo ha fatto a titolo gratuito. Ora, però, il compenso è stato pattuito e fa gola a molti, tuttavia nessuno è ancora riuscito a sottrarre il ruolo all’ex presidente della Camera.
Secondo fonti ministeriali, infatti, il Dicastero dell’Economia sarebbe stato pronto a sostituire Violante con un nome di fiducia come quello di Geminello Alvi, economista ed editorialista molto vicino al ministro Giancarlo Giorgetti, tanto da essere considerato il ghostwriter dei suoi discorsi. Il Mef, principale azionista di Leonardo, avrebbe avuto titolo per imporre un avvicendamento e il via libera sarebbe arrivato anche dalla premier Giorgia Meloni, che con Violante ha un rapporto mediato da Mantovano. Invece, nemmeno il Mef è riuscito a smuovere Violante dalla fondazione e l’ipotesi di avvicendamento con Alvi sembra ormai destinata a tramontare. Del resto, in politica perdere un proprio tassello – in qualunque posto si trovi – è segno di debolezza: proprio quella che non si addice al sottosegretario Mantovano.
IL DOTTO CASSESE
Minori fortune in questa fase, invece, sta raccogliendo l’amministrativista Sabino Cassese. Nonostante sia tenuto in massima considerazione tra le voci autorevoli che sussurrano al governo Meloni, il comitato e che presiede su mandato del ministero dell’Autonomia di Roberto Calderoli si è arenato. Istituito a fine marzo, il comitato per individuare i livelli essenziali delle prestazioni per le regioni doveva essere la chiave per mettere in moto l’agognata autonomia regionale tanto cara alla Lega.
Invece, basta guardare la lista dei dimissionari di metà estate per capire che qualcosa si è messo di traverso già alle prima battute: a pochi mesi dall’inizio dei lavori, infatti, ha lasciato proprio Luciano Violante, qualche settimana dopo è stato il turno anche di Giuliano Amato, seguito da Franco Bassanini, Franco Gallo e Alessandro Pajno.
L’incarico, a questo punto, si è fatto improbo anche per un luminare del calibro di Cassese. Lui è rimasto a presiedere il comitato, ma con la consapevolezza che intorno alla riforma dell’autonomia sta succedendo esattamente ciò che lui ha spesso teorizzato nei suoi articoli: che i tecnici hanno il ruolo di «una classe dirigente neutrale» che non deve «frenare o sabotare» il governo ma tradurne gli obiettivi in provvedimenti. E, nel caso dell’autonomia, l’obiettivo di palazzo Chigi è che si proceda a passo lento e non necessariamente inesorabile. Come ha fatto capire il ministro Calderoli, infatti, ormai la riforma dell’autonomia è fuori dalle sue mani ma naviga tra una commissione e l’altra in parlamento e senza tempi prefissati.
L’abilità di Cassese, affilata in tanti anni di palazzi, però, è quella di non avere mai una sola carta in mano. Non a caso, infatti, il professore emerito di diritto amministrativo è comparso a parlare di «crisi della burocrazia e semplificazione» alla kermesse organizzata dalla ministra per le Riforme, Elisabetta Casellati. La stessa che lo avrebbe voluto nominare la guida di un tavolo di esperti sul presidenzialismo, se Calderoli non la avesse bruciata sul tempo scegliendolo per il Clep.
Il tratto comune di Violante, Amato e Cassese è l’attitudine al potere, che si trasforma in confidenza quando non può essere direttamente esercitato. A questo, tutti e tre hanno saputo sommare una innegabile autorevolezza non solo nei confronti della attuale classe politica, ma anche dei vertici della macchina burocratica senza i quali nessuna posizione può mai essere conservata a lungo. Accanto all’abilità, però, è stato fondamentale anche un pizzico di fortuna: un governo rampante che si fregia di essere nemico dei «poteri forti», inconsapevole di averli chiamati alla propria corte.