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Così non si va da nessuna parte. I partecipanti al vertice Cop27 sul riscaldamento globale, che si è tenuto per dieci giorni a Sharm-el-Sheik, tornano a casa; e – per quel che si può vedere dalla bozza di documento congiunto che verrà diffuso dopo la chiusura – tornano con in tasca ben poche acquisizioni. Si trattava, è vero, di una “conferenza intermedia”, dopo quella dell’anno scorso – Cop26 a Glasgow –, dato che le conferenze sul clima si dovrebbero tenere ogni cinque anni, e la convocazione di questa “intermedia”, approntata in fretta e furia e male organizzata, è evidentemente legata alla guerra in Ucraina e alle sue conseguenze sotto il profilo energetico.
Cop26, nel 2021, era stata una delusione (come documentammo qui e qui), dato che era stata realizzata in ritardo di un anno rispetto alla data prevista a causa della pandemia, ed era stata segnata da dichiarazioni a effetto – “manca un minuto a mezzanotte”, disse Boris Johnson –, alle quali, però, aveva tenuto dietro ben poco sotto il profilo degli accordi e degli interventi concreti. Cop27 è andata perfino peggio. Nonostante la conferenza si sia aperta sotto il segno della preoccupazione e dell’urgenza, visto che molti relatori hanno sottolineato i devastanti impatti climatici che hanno caratterizzato l’anno in corso – ottavo anno consecutivo più caldo di sempre –, e i discorsi pronunciati durante la cerimonia di apertura abbiano ricordato i sempre più pressanti messaggi che giungono dai climatologi, sottolineando la necessità di concentrarsi sull’attuazione dei programmi finora concordati, la montagna dei quasi quarantamila partecipanti ha partorito un topolino.
Cercando di introdurre qualche elemento di ottimismo, il presidente della Cop26, Alok Sharma, nell’intervento in cui passava le consegne al suo successore, ha parlato di recenti rapporti che suggeriscono che – se si attuassero gli impegni attualmente in vigore – il mondo sarebbe teoricamente sulla buona strada per limitare l’aumento medio della temperatura globale a 1,7°C. Ha dovuto però riconoscere che, quanto fatto finora, è insufficiente – e ha esortato i leader mondiali a spiegare chiaramente quali siano i risultati raggiunti nell’ultimo anno, e in che modo essi pensino di procedere oltre.
Il presidente entrante della Cop27, Sameh Shoukry, ha affermato che i recenti eventi estremi in tutto il mondo sono un ulteriore campanello di allarme per agire con la massima attenzione, in conformità con gli impegni e gli obiettivi. Ha esortato a passare dai negoziati e dagli impegni all’attuazione, anche modulando le ambizioni in base alle capacità dei Paesi. Nonostante le parole dei due presidenti – e l’intervento accorato del segretario dell’Onu, Antonio Guterres, trasformatosi ormai in una sorta di prefica ufficiale, che ciclicamente piange sul pianeta che si appresta a essere ridotto in cenere, il quale ha ricordato ancora una volta che “le emissioni aumentano, stiamo premendo sull’acceleratore verso il precipizio dell’inferno climatico” –, si è mosso ben poco. Non si sono ancora visti i cento miliardi di dollari che, come si era deciso a Glasgow, avrebbero dovuto essere stanziati a favore dei Paesi terzi per aiutarli a combattere il cambiamento climatico; e non si è vista neppure l’ombra degli aiuti ipotizzati per quelli più toccati dal riscaldamento globale.
La famosa ottica del loss and damage (“danni e perdite”), preconizzata fin dagli accordi di Parigi, e che dovrebbe avere il compito di introdurre uno strumento economico per compensare le nazioni più vulnerabili dagli effetti del global warming – spesso le meno responsabili per le emissioni –, non decolla. La cosiddetta “mitigazione” delle conseguenze non parte per le resistenze, principalmente, da parte americana, e la invocata “giustizia climatica” rimane un miraggio, dato che non si capisce chi pagherà per i danni miliardari provocati da alluvioni e desertificazioni. La ventilata tassa globale sulla CO2 rimane in votis, nonostante le pressioni esercitate dal gruppo dei V20 – dei “vulnerabili 20”, i Paesi poveri più toccati –, cresciuto negli ultimi anni fino a 58 membri. D’altra parte, gli Stati Uniti, pur essendo tra i maggiori responsabili delle emissioni, sono sempre stati riluttanti a introdurre forme di compensazione economica. E forse andrebbe ricordato che, già al summit di Rio nel 1999, il presidente Bush disse a chiare lettere che “il tenore di vita degli americani non è negoziabile”.
Tra gli altri interventi di rilievo, va ricordato quello del nunzio apostolico in Egitto e delegato vaticano a intervenire alla conferenza, monsignor Nicolas Thevenin, che ha detto che “le decisioni vanno prese urgentemente e con senso di responsabilità”, ribadendo, inoltre, che “i mezzi messi finora in campo non sono sufficienti”. Il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha messo in guardia dal pericolo del “ritorno dei combustibili fossili” dovuto alla guerra, insistendo anche sulla necessità di difendere le foreste pluviali del pianeta. “È necessario dedicare non meno, ma più tempo, più ambizione, più cooperazione alla transizione alle energie rinnovabili, che è sempre all’ordine del giorno” – ha sottolineato, aggiungendo che “i nostri impegni risoluti per la protezione del clima devono essere seguiti da azioni altrettanto risolute”. Parole che contrastano con il fatto che, a causa dell’invasione russa dell’Ucraina e della conseguente crisi energetica, la Germania ha deciso di mantenere in funzione più a lungo le centrali elettriche a carbone, e di promuovere lo sviluppo di nuovi giacimenti di gas in Nord Africa. Scholz ha comunque voluto rimarcare che la Germania uscirà “senza se e senza ma” dai combustibili fossili. Il passaggio alle energie rinnovabili è “non solo un imperativo di una politica climatica, economica e ambientale lungimirante, ma anche un imperativo di politica di sicurezza” – ha sottolineato il cancelliere. “Per noi è più chiaro che mai: il futuro appartiene all’energia eolica, all’energia solare e all’idrogeno verde”. Ha insistito, inoltre, sul fatto che gli Stati devono concordare un “solido programma di lavoro per ridurre le emissioni”, che presenti misure concrete per recuperare il tempo perduto.
In maniera analoga, anche il presidente francese Emmanuel Macron ha ribadito che “non sarà la guerra in Ucraina a farci sacrificare il nostro impegno climatico sull’altare del confitto”. Anche se l’impressione di chi scrive è che la guerra abbia quantomeno messo tra parentesi la questione ambientale, e che molti degli interventi dei capi di Stato presenti siano stati piuttosto di maniera.
Su tutto il summit ha aleggiato, inoltre, una sgradevole e malcelata atmosfera di repressione, dovuta alla ossessione sicuritaria del regime di al-Sisi. Mentre a Glasgow c’erano state manifestazioni significative (ne abbiamo parlato qui), a Sharm tutto è stato rigidamente disciplinato, confinando gli attivisti in spazi e momenti estremamente circoscritti. Altro aspetto inquietante, la presenza massiccia di lobbisti di grandi imprese del settore energetico, dal petrolio al carbone al gas, che hanno sfruttato il meeting per fare affari.
Sharm è stato un non-evento, in cui, da una parte, si è mestamente constatato il mancato raggiungimento degli obiettivi minimi che ci si era dati a Parigi, nel 2015; dall’altra, si è prefigurato il probabile innalzamento delle temperature oltre il limite di 2 gradi, con conseguenze terribili. L’impressione è che, nell’anno intercorso da Glasgow, nessuno abbia fatto nulla, e ben poco di nuovo si sia mosso sulla strada del rispetto degli accordi di Parigi. Se a Glasgow restava poco tempo, ora pare che non ce ne sia proprio più. Il mediocrissimo risultato del vertice ci mette davanti un futuro che pare prospettarsi tanto drammatico quanto ineluttabile.