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6 Ottobre 2022
Da Bindi fino a D’Alema e Bersani, nel partito che si prepara al congresso le bordate arrivano dal passato
ROMA Altro che tacere dell’oggetto e far finta di nulla, che l’antico proverbio suggeriva come esempio di buona creanza. Qua è come se a casa dell’impiccato, proprio nei giorni dell’elaborazione del lutto, a un certo punto abbiano iniziato a citofonare i rappresentanti di corde.
Perché è più o meno così che nelle stanze del quartier generale del Partito democratico, che si appresta a premere il tasto «play» alla lunga e tormentata trafila che porterà a un nuovo congresso e a un nuovo segretario, vivono la sequenza di uscite delle «vecchie glorie» del tempo che fu. Che col tempismo comodo dell’analisi «a cose fatte» e con la certezza di non poter subire l’accusa di aver sbagliato diagnosi — tanto ormai quello che è fatto è fatto, e le elezioni sono belle che andate — smontano un giocattolo già ridotto in mille pezzi. Suggerendo come rimontarlo.
All’elenco, dopo giorni dominati dall’appello allo «scioglimento» del Pd in una nuova «Cosa» promosso da Rosy Bindi insieme a intellettuali come Massimo Cacciari e Tomaso Montanari, s’è aggiunto ieri Massimo D’Alema. A pochi giorni dal varo del primo governo a guida post-missina, il primo ex comunista a Palazzo Chigi — che del Pd è stato un autorevolissimo dirigente anche se in fondo non l’ha mai amato («È un amalgama mal riuscito», dicembre 2008) — rimette nel fodero il fioretto e sguaina direttamente la sciabola. Intervistato dal Fatto quotidiano, l’ex presidente del Consiglio, che sosteneva e sostiene la necessità dell’accordo col Movimento Cinque Stelle di Giuseppe Conte, bombarda un fortino già in fiamme. «I dirigenti del Pd hanno pensato che la fine di Draghi provocasse un’ondata popolare nel Paese, travolgesse Conte e portasse il Pd, la forza più leale a Draghi, a essere il primo partito. Io non so che rapporti abbiano i dirigenti del Pd con la società italiana. Mi domando persino dove prendano il caffè la mattina».
La tendenza
Un tempo a criticare era il solo De Mita, oggi la «forza suggeritrice» ha molte più voci
Insomma, per D’Alema la colpa pre-elettorale del Pd lettiano è stata aver abbandonato Conte. Al contrario, all’epoca dei primi venti di crisi sul governo Draghi, «poteva essergli più vicino, fargli da sponda su alcune richieste fondate dei Cinque Stelle ed evitare così la crisi».
Se nel Partito democratico delle origini gli attacchi dal glorioso passato erano circoscritti ai fendenti riservati alla «creatura» dal solo Ciriaco De Mita, che era rimasto ai margini, oggi che la «creatura» ha superato i quindici anni di vita la forza suggeritrice (e per le malelingue, in certi casi, distruttrice) si presenta sotto tantissime spoglie. D’Alema e Bersani concordano sull’approdo (l’alleanza col M5S) ma divergono sull’analisi (uno attacca Letta, l’altro lo difende); Bindi e D’Alema concordano sull’analisi ma divergono sull’approdo (per D’Alema «c’è bisogno del Pd», per Bindi andrebbe «sciolto e rifondato»); D’Alema e Bettini, che per oltre un decennio hanno occupato barricate opposte dentro i Ds prima e il Pd dopo, divergono sul passato (uno era scettico sull’operazione Pd, l’altro l’ha messa in piedi) ma concordano sul futuro e soprattutto sul compagno di ventura (Conte).
Dentro le mura del Nazareno, mentre si approntano i documenti della prima di una lunga serie di riunioni di direzione, ci si sente come in quelle tormentate sessioni di «schiaffo del soldato», il gioco che andava di moda nelle caserme e che poi superò gli ambienti popolati dai giovani coscritti della leva obbligatoria: un partito con la testa bloccata in avanti e una serie indefinita di schiaffi che arrivano da dietro. Il malcapitato di turno, per uscire dall’impasse, doveva indovinare chi fosse lo schiaffeggiatore. Durante la campagna elettorale, quel ruolo se l’era ritagliato Matteo Renzi, che del Pd è stato il segretario. Dal 26 settembre in poi, in fondo, per far rumore è bastato tirare uno schiaffo più forte. Sempre di più.