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di Roberto Barzanti
Le valutazioni circa la possibilità di conferire alle Regioni a statuto ordinario che lo richiedano un’autonomia differenziata, o rafforzata, comprensiva di molte delle competenze – e al limite di tutte quelle elencate come concorrenti all’azione statale nell’ art. 117 della Costituzione – suscitano motivate perplessità e aspre polemiche, spesso interne alle varie formazioni politiche e a strati di opinione pubblica difensori a spada tratta del dettato costituzionale. Lasciando gli approfondimenti indispensabili all’animato confronto tecnico sui contenuti e sulle procedure decisionali, è utile soffermarsi sugli effetti probabili che si avrebbero se gli orientamenti formulati nella proposta del ministro Calderoli fossero attuati al massimo delle loro potenzialità. Già, perché preliminarmente è doveroso osservare (comma 3 dell’art.116) ) che si tratta di una facoltà accordata alle Regioni di richiedere il rafforzamento della loro produzione legislativa in taluni settori peculiari e non di un obbligo generalizzato di rendere speciale ogni Regione. Si sa che l’eventualità offerta a seguito della pasticciata riforma del 2001 è stata già colta da Lombardia e Veneto (con tanto di referendum) e che l’Emilia-Romagna l’ha fatta propria in modo più morbido e controllabile. Ora siamo ad una svolta, perché con il governo Meloni le ambizioni di stampo leghista sono state rilanciate, se non altro per conquistare una visibilità appannata e riproporre un obiettivo che si presta a varie declinazioni. È in sintonia con la fase politico-istituzionale che stiamo affrontando? Quali i vantaggi e quali i rischi? Per abbozzare una risposta seria sarebbe opportuno tracciare un bilancio del regionalismo per come si è andato concretizzando lungo l’arco ultracinquantennale dal suo esordio. Le tensioni esplose nel definire le misure antipandemiche non sono state certo un esempio di chiara divisione dei compiti e di efficace armonia operativa. Fatto è che, invece di smantellare il deprecato centralismo, le Regioni in genere hanno moltiplicato spinte e velleità di una subcentralizzazione di poteri che ha introdotto rallentamenti e filtri. Quanto alla Toscana, ad un primo elenco di una decina di ambiti per i quali irrobustire la sua potestà legislativa, fa ora seguito l’enfasi posta su due questioni. Il presidente Giani ha dichiarato recente di insistere su due settori: i beni culturali e la geotermia, teorizzando che la Toscana detiene il 25% del patrimonio di beni culturali italiani. Vanto inaccettabile, perché la nozione amplificata a dismisura di bene culturale non consente affatto di dare base scientifica al dato sbandierato boriosamente. E sarà da precisare che tra le rivendicazioni non ci dovrà essere la tutela, a meno che non si voglia inventare una via arlecchinesca dotata di criteri variabili a piacere. È evidente che la richiesta scaturisce da quel fastidio per le indicazioni soprintendenziali percepite come prescrizioni per creare solo ostacoli anziché concordati principi da osservare. Si è pire detto che l’autonomia differenziata è di sinistra. Anche in ciò bisognerà intendersi. Certo: di per sé, se attuata con parametri equitativi (con Livelli Essenziali di Prestazioni) e solidali nell’allocazione delle risorse, una maggiore autonomia non ha effetti secessionistici o volgarmente disgreganti. Ma incombono pericoli innegabili. L’eccesiva e impropria partiticizzazione dei governi regionali è sotto gli occhi di tutti, con le competizioni elettoralistiche conseguenti: quasi che ogni Regione dovesse essere una sorta di egoistica lobby territoriale. In un quadro globalizzato – anche se in modi parzialissimi e squilibranti – il problema è di costituire, in Europa, statualità contrassegnate da una convinta coesione interna. Non è saggio né tempestivo disarticolare un Paese o una nazione – se il lemma è più gradito –, ma è fondamentale rappresentare unitariamente una pluralità di condizioni e di culture da governare promuovendo eguaglianza diffusa e parità di chances. Se il gioco si fa duro e la cosiddetta autonomia differenziata diviene un irto passaggio ampiamente sostenuto, la Toscana assuma una funzione moderatrice. E si opponga a irrigidimenti e controversie che trasformerebbero una Repubblica rispettosa delle differenze in uno Stato che allarga e sancisce storici, incolmabili divari.
“Corriere Fiorentino”, 17 gennaio 2023