Il primo scontro è interno a Forza Italia. Ieri Antonio Tajani ha provato a placare i dissensi dei presidenti di Regione riunendoli e poi annunciando un comitato per vigilare sull’applicazione dell’autonomia. Ma non ci è riuscito. Perché durante il consiglio nazionale azzurro, il presidente della Calabria Occhiuto ha sparato a zero sull’autonomia spiegando che se si arriverà a un referendum “al Sud perdiamo 90 a 10 e sono convinto che anche al Nord rischiamo: non andrà a finire 10 a 90”. Per questo, ha aggiunto, Forza Italia non dovrà votare “alcuna intesa con singole Regioni se prima non saranno interamente finanziati i Lep e se non ci sarà la certezza che le intese possano produrre danni al Sud”. Questo non significa che Occhiuto sosterrà la richiesta di referendum in consiglio regionale – vorrebbe dire provocare una crisi nel governo di centrodestra – ma vuole iniziare una mobilitazione sul tema dell’autonomia. E non solo: le critiche di Occhiuto vengono viste anche come una prima sfida interna a Forza Italia nei confronti di Tajani, visto il suo ruolo da vicesegretario. Anche perché al Sud esiste un tema in FI: ieri il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè ha fatto un intervento molto duro contro coloro che, in Sicilia, sono “saliti sull’autobus del partito” (soprattutto contro Totò Cuffaro) e ha avvertito: “Serve rispetto e confronto contro l’arroganza e la prevaricazione”. Che serva più coordinamento coi territori lo ha detto la vicepresidente del Senato, Licia Ronzulli, che ha lanciato l’idea di un centro studi sul modello di quello del 1994 in grado di “raccogliere le istanze che vengono dal territorio per trasformarle in proposte”. Un centro studi, ha aggiunto Ronzulli, “ci permetterebbe di creare una membrana che faccia da collegamento tra tra Nord, Sud e Roma” per “avvicinare il partito alla gente e arricchire tutti noi”.
Durante il consiglio regionale campano, Vincenzo De Luca ha fatto un intervento appassionato, chiamando alla battaglia anche il Nord e menzionando la posizione di Occhiuto: “Prima i concittadini, poi le bandiere di partito e di coalizione”. A votare la richiesta di referendum sono stati i gruppi di centrosinistra, compreso il M5s (all’opposizione della giunta) e alcuni consiglieri di Azione (uno si è astenuto), che invece a livello nazionale si è dissociata dalla campagna referendaria. Su 46 presenti, ci sono stati 35 sì, 9 no e 1 astenuto. Ad essere votato in primis il quesito referendario che propone l’abrogazione totale della riforma. Poi è stato approvato anche un secondo quesito che chiede la cancellazione solo di alcune parti della legge, in modo da mettere al riparo il referendum da un eventuale giudizio di inammissibilità dell’abrogazione totale, ipotesi legata ai collegamenti tra il ddl Calderoli e la legge di bilancio. L’accordo con le altre Regioni, coordinate da Alessandro Alfieri, era questo.
Ma in realtà al momento di votare il secondo quesito molti erano andati via. Perché De Luca ha spiegato anche agli altri presidenti di Regione che politicamente il rischio – con un quesito che richiede una cancellazione parziale – è far passare il messaggio che alcune parti della legge vanno bene. Va notato che Stefano Bonaccini ha spinto particolarmente per l’abrogazione parziale: è proprio l’ex presidente dell’Emilia-Romagna quello che ha più difficoltà a contrastare in blocco la riforma. Ma dalle parti di Pd e M5S per tenere insieme motivazioni tecniche e politiche si ragiona sulla presentazione di un terzo quesito sul quale raccogliere le firm, che superi le pre-intese e garantisca che alcune materie non possano essere derogate alle Regioni. In modo da far votare i cittadini solo su questo e sull’abrogazione totale.