ROMA — L’ha incrociata sotto il palco del comizio conclusivo della campagna elettorale in Umbria, pochi minuti dopo la sentenza con cui la Consulta ha fatto brandelli del ddl Calderoli. «Le riforme dell’autonomia e del premierato camminano insieme — ha ricordato in sintesi Matteo Salvini a Giorgia Meloni, secondo quanto riferiscono fonti presenti — e non si deve mollare su nessuno dei due fronti». Di più: «La nostra riforma — ha messo in chiaro il leghista parlando poi con alcuni dirigenti del partito — ha necessariamente tempi più rapidi, perché è prevista già dalla Costituzione». Come a dire: l’autonomia viene prima e da lì si deve partire, altrimenti salta il premierato e tutto il resto.
A Palazzo Chigi già la chiamano, sottovoce, «la crisi delle riforme». Di certo, è un gran pasticcio. Reso ancora più allarmante dall’ultima presa di posizione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il sospetto della presidente del Consiglio è che l’affondo, pur senza nominare un provvedimento specifico, metta in guardia la destra da nuove forzature e si riferisca proprio all’autonomia, al premierato e anche alla legge sulla maternità surrogata che da settimane attende la firma del Colle. La premier ha chiara la portata della minaccia politica del vicepremier leghista. Non la teme, è sempre pronta a ventilare il ritorno alle urne per ridimensionare ancora l’alleato, ma intravede alcuni rischi. In particolare, dover rimettere mano a un puzzle di riforme in cui alcuni pezzi sono ormai smarriti.
Antonio Tajani allinea Forza Italia ai rilievi della Consulta, rivendicando i dubbi espressi in passato. Ma Meloni sa che la Lega pretende l’autonomia, anche a costo di terremotare l’esecutivo. Era stata la presidente del Consiglio a pregare Salvini di non correre troppo, prendere tempo e scrivere meglio quel testo, senza farsi trascinare dall’esigenza di approvarlo prima delle Europee. Come allora, anche adesso il segretario del Carroccio non vuole procedere con cautela. Chiede di tornare al più presto in Parlamento per modificare le norme impugnate dalla Corte costituzionale: non gli basta che vadano avanti i tavoli con le Regioni, esige certezze sul quadro normativo. E minaccia, come detto, ritorsioni sul premierato: «Sull’autonomia torniamo alle Camere e andiamo avanti», dice il viceministro Claudio Durigon, che parla a nome del capo.
Fosse facile. Meloni ha altre priorità. Deve gestire le tre grandi riforme — con premierato e autonomia c’è anche la separazione delle carriere dei magistrati — consapevole che l’incastro diventa sempre più complesso. Non ha alcuna voglia di forzare di nuovo la mano sull’autonomia, ad esempio, anche perché consapevole che la sua base elettorale (per non parlare del Colle) vive con fastidio le forzature del Carroccio. Al massimo, è disposta ad annacquare il provvedimento, riducendo l’impatto sul Mezzogiorno. E comunque rallentando i tempi di una nuova approvazione. Il problema è che un atteggiamento del genere avrebbe conseguenze sul premierato.
La legge costituzionale cara a Meloni deve ancora superare tre letture parlamentari. Alla Camera sono già in agenda alcune modifiche tecniche. E la premier continua a non escludere di aprire ad alcuni ritocchi delle opposizioni, per provare a sminare il referendum. È un progetto che porta però con sé un pericoloso dilatamento dei tempi, che mal si concilia con la volontà di far votare i cittadini sulla riforma al più tardi nel 2026, per evitare pericolose sovrapposizioni con le politiche 2027.
Un bel garbuglio. A cui va aggiunto l’altro grande nodo: la separazione delle carriere, che ha già generato una reazione durissima della magistratura. Palazzo Chigi non sembra intenzionato a rallentare, ma intanto sembra archiviata l’opzione di chiudere la prima lettura entro fine dicembre. Di fatto, il percorso in aula inizierà a gennaio. Intanto sull’autonomia Tajani fa notare che la Consulta «pone negli stessi problemi sollevati da Forza Italia». Sembra sfilarsi da nuove avventure.