Se il pensiero critico è figlio dell’Illuminismo e dell’idea che tutto possa essere discusso, emendato, trasformato, l’attività critica prospera nei frangenti di partecipazione democratica e conflitto sociale come ad esempio nel secondo dopoguerra («i trenta gloriosi», chiamò qualcuno quei decenni) e specialmente tra gli anni sessanta e settanta. Dalla sua particolare angolatura ne dà ora testimonianza la pubblicazione dello scambio epistolare fra uno dei massimi poeti italiani, Franco Fortini (1917-1994), e uno dei più originali critici della generazione di mezzo, Luigi Baldacci (1930-2002), sotto il titolo ‘Parlare di tutto’. Un’idea della critica Il carteggio Baldacci-Fortini (Firenze University Press-USiena Press, pp. 95, € 20,00).
Nella precisa curatela di Marco Villa, si tratta di una quarantina di lettere (per lo più scritte a macchina, dunque frutto di attenta riflessione) databili fra il ’62 e il ’93 e grosso modo dislocate fra gli anni del Boom economico che corrisponde all’affermarsi delle nuove avanguardie e quelli invece della incipiente globalizzazione nonché glaciazione neoliberale. Specie all’avvio il rapporto è contraddistinto da un cerimoniale che impone il «lei» e, da parte di entrambi gli interlocutori, dalla coscienza sia della comune fiorentinità, appena sfalsata cronologicamente, sia dell’opposta filiazione culturale perché Fortini viene da un’antica insofferenza della clausura ermetica e dalla lezione di Giacomo Noventa mentre Baldacci è l’allievo prediletto di Giuseppe De Robertis che dell’enclave ermetica è stato un protagonista. Anzi il carteggio si avvia proprio con un’intemerata di Fortini che rimprovera a Baldacci di avere parlato di «montatura» a proposito di Noventa e di averlo definito addirittura «impoeticissimo».
La falsa partenza è in effetti la messa a punto di una sintonia che è tanto più forte quanto più sembrerebbe impedirla la distanza fra colui che si divide fra l’impegno ideologico sulle riviste della nuova sinistra (al momento «Quaderni Rossi» e «Quaderni Piacentini») e l’impervia, stupenda Poesia delle rose (’62) e chi invece fa convivere il lavoro filologico (i Lirici del Cinquecento risalgono al ’57) con un fervido cross country su quotidiani e periodici tradizionali, soprattutto «Epoca». Fortini è poeta sempre e predilige anche nel carteggio la locuzione indiretta, l’immagine allegorica diffidando di ogni linearità narrativa, Baldacci al contrario e a più riprese si dice paradossalmente avverso alla poesia preferendo il regime tiepido della prosa e, al riguardo, un cameo è da lui riservato a un bel romanzo di Francesca Sanvitale (Un cuore borghese, 1972) che anche Fortini mostra peraltro di apprezzare.
Ma il cuore del rapporto si cela nella comune concezione della critica che, a prima vista, nessuno potrebbe immaginare paragonando i saggi militanti di Dieci inverni (’57) e Verifica dei poteri (’65) a quelli di pratica, diciamo, endo-letteraria che stanno in Letteratura e verità (’63) e Le idee correnti (’68). In un passo celeberrimo, più volte reiterato e incluso in Verifica dei poteri, Fortini afferma: «Il critico allora, per questa concezione, è esattamente il diverso dallo specialista, dal filologo e dallo studioso di ‘scienza della letteratura’». Il che vuol dire che il critico non è semplicemente il mediatore fra un testo e un pubblico ma piuttosto fra quel testo e gli altri testi reali o potenziali che abitano e partecipano della medesima cultura. Fatto sta che, pur se ancora preso dentro la polemica su Noventa, Baldacci gli ha scritto nella primavera del ’62 come la critica «consista nel rapporto tra una economia di giudizi e di scelte letterarie ed una coscienza-azione non individuale ma di classe e storica». L’intersezione tra i due comincia a rendersi evidente nonostante permangano differenze di carattere (nel carteggio Fortini ha momenti di autentico, e suo tipico, furore) e la distanza tra il marxismo eretico dell’uno e il maggiore riserbo ideologico dell’altro: li accomuna l’idea che la verità della letteratura non sia rintracciabile all’interno di essa e con le sole procedure della descrizione filologica ma vada direttamente interrogata dallo stesso pensiero critico all’interno dell’esperienza storico-sociale. È per questo che il critico può, anzi deve (essendovi costretto), «parlare di tutto» come è già precisato nel testo fondativo della forma-saggio, L’anima e le forme (1910), in cui György Lukács distingue fra lo scrittore tout court che tratta direttamente l’esperienza del mondo e lo scrittore-saggista che tratta, viceversa, un’opera già data come fosse per lui l’esperienza diretta del mondo. (È questa, sia detto per inciso, una regola cui non si è sottratto nessuno tra i maggiori della critica secolare e nemmeno chi si arrogava il diritto di sentirsene ex lege come Cesare Garboli, che però si affrettava ogni volta a distinguere fra scrittore-scrittore e scrittore-lettore dove il primo disperde nell’ambiente lo sciame delle sue parole e l’altro le riporta a casa come Vespero le capre).
Proprio nel momento di massima tensione sociale, fra il ’68 e il ’77, il carteggio prosegue ma tende a frammentarsi, la comunicazione è più rapida ma l’intesa è stavolta più immediata, né c’è più bisogno di cerimoniali e aggiustamenti delle rispettive posizioni. Si intuisce anche, tra i silenzi talora lunghissimi della parola scritta, la presenza del telefono e il felice imprevisto di diversi incontri. E però si continua a «parlare di tutto», dal caso Braibanti (per cui Fortini si spende raccogliendo firme per un pubblico appello e Baldacci aderisce con grande premura) alle occasioni della letteratura corrente, come nel caso del più ufficiale tra i critici crociani, Francesco Flora, che diviene oggetto di critica efferata, da parte di entrambi, per avere del tutto equivocato un sonetto del Cavalcanti prendendo per immagini liliali quelle che, al contrario, sono dei cliché satirici. Più rarefatta ma non meno interessante la zona estrema del carteggio, tra il 1989 e il ’93, con una lettera di Fortini che allega la stroncatura relativa a una antologia adelphiana di Leopardi politico per l’appunto inviandola al grande intenditore che qualche anno dopo riunirà i propri saggi leopardiani ne Il male nell’ordine (1998).
Questo è un ultimo gesto d’intesa perché il loro rapporto è ormai dato una volta per sempre e, al riguardo, scrive Villa in clausola alla introduzione: «È un rapporto che non esclude conflitti, i quali però derivano il più delle volte da timori pregiudiziali dovuti a un diverso collocamento nello spettro ideologico; proprio il confronto epistolare, allora, permette di chiarire le rispettive posizioni e infine di scoprirsi, con pochissime eccezioni, su un terreno comune». Che, per l’appunto, è il terreno della critica. Quanto alle personali fisionomie, c’è una lettera rivelatrice di Baldacci che il 22 novembre del ’69 invia a Fortini copia del suo libro I critici italiani del Novecento. È una lettera smagata ai limiti dello scetticismo, che rivela stanchezza e disincanto nei riguardi del proprio mestiere e di quanti dovrebbero esserne i beneficiari, dove Baldacci vede scomparire la prospettiva degli «scopritori di realtà» e ne conclude: «Al Caravaggio preferisco Guido Reni». È una frase che, probabilmente, Fortini avrebbe in cuor suo rovesciata tenendo per sé Caravaggio.

 

Per il ventennale della morte, avvenuta a Firenze il 26 luglio 2002, «Antologia Vieusseux» – il quadrimestrale del Gabinetto Vieusseux – dedica a Luigi Baldacci un fascicolo speciale (N.s., n. 84, settembre-dicembre 2022). «Baldacci amava farci visita – ricorda Gloria Manghetti –. Lo vedevamo arrivare con la sua figura massiccia, scuotendo la testa, sornione e sorridente insieme». In apertura del numero, il lucido e affettuoso ricordo di Rita Guerricchio, amica recentemente scomparsa; seguono saggi e interventi su alcuni degli autori studiati e amati da Baldacci sin da giovane: Tozzi (Marco Marchi), Gadda (Giuseppe Nicoletti), Caproni (Adele Dei), Morante (Benedetta Centovalli); poi, quattro lettere dal carteggio con Fortini (Marco Villa), Baldacci tra storia e biologia (Matteo Marchesini), Baldacci critico militante (Giovanni Falaschi). Infine, preziose riproposte: gli scritti di L. B. pubblicati su «Antologia Vieusseux»; la «poetica tenzone» con Patrizia Valduga (1988), dottissimo e ludico scambio in rima ‘alla maniera di’: sonetti petrarcheschi autobiografici, esametri e pentametri carducciani, odi asclepiadee, madrigali…