Spostare il picco un poco più in là. Giugno, poi luglio e ora settembre. Con il rialzo deciso ieri dalla Bce, il decimo di una lunga serie che parte dall’estate del 2022, il costo del denaro in Eurolandia è al massimo dal 2001. Siamo vicini alla svolta?
Ottobre segnerà davvero il cambio di stagione anche per la politica monetaria di Francoforte? Le Borse festeggiano, perché pur nel linguaggio oracolare che caratterizza la comunicazione dell’Eurotower, la presidente Christine Lagarde ieri ha fatto un vago accenno alla possibilità che i tassi d’interesse siano arrivati al punto più alto della loro parabola.
A ben guardare, però, era successo lo stesso anche subito dopo la stretta precedente, a fine luglio, quando i mercati scommettevano su un’inversione di rotta della banca centrale. Nel frattempo, lo scenario economico è peggiorato, e non di poco. La stessa Bce vede la crescita nell’area euro fermarsi quest’anno allo 0,7 per cento, senza andare oltre l’1 per cento nel 2024. Rallenta anche l’Italia, che dopo un secondo trimestre sottozero (meno 0,4 per cento), ora vede allontanarsi l’obiettivo dell’1 per cento che il governo di Roma dava per sicuro solo poche settimane fa.
SPERANZE DELUSE
Il quadro complessivo, insomma, lascia poco spazio all’ottimismo, tanto che molti analisti, forse esagerando incominciano a temere che la recessione data per scontata nei primi mesi del 2023 sia stata solo rinviata di dodici mesi. Nei giorni scorsi, il pessimismo alimentato dai dati aveva fatto pendere la bilancia dei pronostici verso uno stop al rialzo dei tassi, nel tentativo di dare fiato all’economia.
Speranze deluse, se ne riparla a ottobre, forse. Nel confronto interno al consiglio direttivo della Bce hanno prevalso ancora una volta i falchi, che concentrano la loro attenzione su un’inflazione ancora troppo elevata per consentire alle autorità monetarie di mollare la presa sui tassi.
E in effetti le previsioni diffuse ieri dalla Bce vedono il costo della vita nell’area euro che nel 2023 non scenderà sotto il 5,6 per cento, il 5,1 se si escludono dal computo i prodotti energetici e alimentari non lavorati. In altre parole, pur spingendo come mai prima d’ora sul pedale dei tassi, la Bce non è ancora riportare in gabbia l’orso dell’inflazione.
Colpa, probabilmente, di una sorprendente sottovalutazione delle prime fiammate dei prezzi, all’inizio del 2022. Tanto che secondo molti osservatori, Lagarde sembra da mesi più che altro impegnata a farsi perdonare il suo grave errore di valutazione iniziale. Da qui la sua condiscendenza verso le posizioni dei falchi nel consiglio direttivo della Bce.
Adesso, tutti gli osservatori danno per scontata una pausa nei rialzi per il prossimo ottobre, che potrebbe inaugurare una fase di stabilità. In altre parole, di ribassi non si parla almeno fino ai primi mesi del 2024. E ieri, a dire il vero, la presidente in conferenza stampa ha tenuto aperta la porta anche a possibili nuovi rialzi. Lo spettro da esorcizzare a tutti i costi, adesso, è quello della stagflazione, cioè un forte rallentamento dell’attività economica con i prezzi che continuano ad aumentare.
Di sicuro, in questo scorcio finale dell’anno, l’Europa dovrà confrontarsi con un costo del denaro destinato ad aumentare ancora dopo quest’ultima stretta. In Italia, le richieste di prestiti e mutui viaggiano da settimane al minimo, segnale chiaro che la doccia gelata dei tassi ha raffreddato le aspettative di imprese e famiglie.
IL PESO DEL DEBITO
Del resto, già in luglio, ultimo dato disponibile, in Italia la produzione industriale ha fatto segnare un rallentamento dello 0,7 per cento rispetto al mese precedente, poco meglio dell’Europa che ha registrato un calo dell’1,1. Non va dimenticato che il livello dei tassi condiziona pesantemente anche la finanza pubblica di un paese superindebitato come l’Italia, che vedrà aumentare ancora la spesa per interessi sui propri titoli di stato.
Infine, com’era prevedibile, in queste ore è tornato a impennarsi il volume degli attacchi della politica verso la Bce, che «non aiuta la ripresa», ha dichiarato ieri il ministro delle Imprese, Adolfo Urso. Di certo, dopo Bruxelles, anche lo spauracchio di Francoforte, sembra l’alibi perfetto di un governo schiacciato dal peso dei conti che non tornano. E delle promesse elettorali impossibili da mantenere.