Si è chiuso questa settimana il festival che in un mese molto intenso ha celebrato al Piccolo Teatro il centenario della nascita del fondatore Giorgio Strehler, cui era dedicato il titolo/gioco di parole Presente indicativo. Si è concluso con un ballo «liberatorio» del pubblico (molti i giovani) sulla scalinata della sala che dal fondatore prende nome. È stata una manifestazione molto piena, e dedicata in misura privilegiata al pubblico milanese: almeno un debutto al giorno, poche le repliche, molti i titoli presentati, alcuni già passati in altre città, altri novità assolute, quasi sempre in presenza dei loro autori (molti dell’attuale mainstream europeo), che la mattina si offrivano all’incontro con la stampa e il pubblico (in presenza e in zoom). In più sono stati proiettati tutti gli spettacoli strehleriani di cui sia conservata la ripresa video. Insomma un ritmo molto sostenuto, che ha costituito il primo segnale della direzione da poco insediata di Claudio Longhi.

DUE ASSOLUTE novità hanno animato le giornate finali, entrambe provenienti dai circuiti meno frequentati, essendo stati prodotti uno a Tehran e l’altro a Dublino. Dalla capitale iraniana viene Parnia Shams, giovanissima autrice e performer che con Is ci porta dentro un’aula scolastica dove un gruppo di allieve, col capo velato, si misura con la vita di ogni scolaresca. Ma qui l’interlocutore non si vede, si sentono le sue regole e i suoi divieti, che causano le reazioni, le iniziative, i giochi delle ragazze. E soprattutto la vitalità e le piccole lotte, come in tutte le scolaresche del mondo, che però qui soffrono in più le imposizioni, i divieti e i soprusi che quella sorta di tirannide invisibile cerca di stendere sulla loro sensibilità, nel momento in cui vorrebbero affacciarsi alla vita. Con qualche difficoltà a seguire in persiano le evoluzioni di quegli stati d’animo, ma con la sensazione precisa di una oppressione che non può certo dirsi formativa. Il teatro, come c’era già stato modo di vedere con quelle rare presenze giunte in Italia (ad esempio Kohestani, con i suoi bicchieri sonanti e danzanti), può ancora esprimere una vitalità repressa, benché non possa denunciarne esplicitamente la responsabilità. Come fossero due mondi che si sovrappongono senza mai toccarsi.

In cuffia ogni spettatore sente le voci e i rumori; gli oggetti in scena (una poltrona come una tazzina di caffè) si muovono da soli, anche se ne sentiamo realisticamente gli echi o i tonfi.

DALL’IRLANDA invece è arrivato il Dead Center di Bush Moukarzel e Ben Kidd, una formazione già nota in Europa, che opera un teatro del tutto particolare: senza attori in scena, dove invece si muovono e cambiano oggetti, pareti, colori e immagini anche se non si vede la mano che li agita. Un po’ frustrante all’inizio, poi il racconto di soli oggetti prende lo spettatore, in quella sfida all’assenza di ogni gravità fisica, che da dietro le quinte quattro «burattinai» muovono e animano fino a farceli «vedere».
Anche perché la storia che raccontano – Beckett’s Room – vede protagonista addirittura Samuel Beckett assieme alla moglie Suzanne, protagonisti di una situazione di pericolosa resistenza francese durante l’invasione nazista. In cuffia ogni spettatore sente le voci e i rumori; gli oggetti in scena (una poltrona come una tazzina di caffè) si muovono da soli, anche se ne sentiamo realisticamente gli echi o i tonfi. Un’operazione piena di fantasia e di coraggio, a mostrare una possibile e inarrestabile «rivolta degli oggetti» di avanguardistica memoria.