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VENEZIA
Spiegando perché ha scelto Lesley Lokko come curatrice della prossima mostra d’architettura (dal 20 maggio al 26 novembre 2023) il presidente della Biennale di Venezia Roberto Cicutto nella prima conferenza stampa di presentazione cita la “sicurissima calma” con la quale l’architetta anglo-ghanese, 58 anni, “si mette di fronte al mondo con un punto di vista preciso”.
In quella che sarà la prima edizione della Biennale post-pandemia, per la quale Lokko ha scelto il titolo Il Laboratorio del Futuro, il focus sarà questo: rovesciare ciò che crediamo di sapere su dogmi e paradigmi dell’architettura per farle giocare davvero un ruolo nel costruire il domani.
Con un curriculum che spazia dagli studi di ebraico e arabo a Cambridge alla direzione dell’African Futures Institute di Accra, in Ghana, Lokko parte da una constatazione: “Il mondo si sente meno stabile e sicuro di come si sentiva tre anni fa, o solo tre mesi fa: ci sono nuove tensioni tra le nazioni, tra ‘noi’ e ‘l’altro’, persino in noi stessi. L’Europa ora si confronta con le stesse domande sulla terra, sull’identità e sulla lingua che molte parti dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia non hanno mai visto sparire”.
Le tensioni geopolitiche e l’incalzare del cambiamento climatico sono sfide enormi. Ma, dice ancora, “la speranza è una moneta potente. Io stessa sono qui, oggi, grazie alle richieste delle generazioni precedenti di una società più giusta, più inclusiva”.
Il suo invito è a guardare all’Africa, dove ha scelto di lavorare, “il continente più giovane, dove tutte le questioni di equità, risorse, razza, speranza e paura convergono e si fondono”. Una prospettiva rovesciata ma non divisiva perché, ricorda, “a livello antropologico, siamo tutti africani. E ciò che accade in Africa accade a tutti noi”.
Lei invita a scegliere il continente africano come lente per vedere il mondo. Quella lente è sempre stata l’Occidente, che ha modellato i canoni dell’arte, dell’architettura, in sintesi della bellezza.
“L’Africa è stata vista a lungo come l’opposto della bellezza: era caotica, corrotta, era black, era povera, era il metro attraverso cui l’Europa definiva ciò che non era, né voleva essere. Ora possiamo invece guardare al mondo dal contesto africano: un contesto così complesso da mostrarci che per risolvere i problemi dobbiamo lavorare insieme: urbanisti, sociologi, architetti. Ma questo non vuol dire compiere un’operazione di sostituzione. Implicherebbe che il canone dell’architettura è fisso e immutabile, e l’unico modo per aggiungere è buttare via qualcos’altro. Io invece vedo il sapere architettonico come una rete potenzialmente infinita. Questo è ciò che dobbiamo insegnare agli architetti di domani. I miei giovani ricercatori non si chiedono solo come risparmiare risorse, ma come è nata la cultura dello spreco e che cosa possiamo fare per cambiarla”.
Le parole d’ordine della sua visione sono decarbonizzazione e decolonizzazione. Come sono legate?
“Nel prefisso de c’è l’idea che è necessario smantellare qualcosa. Ma l’architettura è la disciplina del ri: ricostruire, riflettere, ricreare. Ciò che intendo è che l’architettura vive tra il mondo delle idee e quello delle cose. Non si limita a criticare, deve proporre soluzioni. Così ci aiuta a capire che la rottura dello schema è produttiva. Nel pensiero contemporaneo c’è un gap tra la consapevolezza che dobbiamo smontare la logica con cui viviamo, sia quella sociale che quella ecologica, e la coscienza ma fare dichiarazioni non basta. Essere arrabbiati è solo il primo passo, poi bisogna fare. Nell’architettura c’è questo fare, c’è l’energia per creare il nuovo. Le scuole, le manifestazioni come la Biennale servono proprio a testare il cambiamento”.
Che cosa le ha insegnato l’Africa rispetto a tutto questo?
“Io vedo l’architettura come una disciplina di trasformazione e di traduzione. Non esiste nessun africano che parli una sola lingua: ciascuno di noi parla almeno una lingua indigena nella vita privata e una lingua europea nella vita pubblica. Da questo viaggio continuo tra codici e spazi, da questa facilità di traduzione e da questa elasticità possiamo imparare”.
L’elasticità non è il paradigma dell’architettura in Occidente.
“L’architettura non è solo palazzi: ha bisogno di soldi, certo, di risorse, ma ha bisogno anche di ascoltare i desideri e i bisogni culturali. Ho imparato, lavorando in Sudafrica prima e ora in Ghana, che ciò che serve a una comunità a volte è un edificio, a volte un paesaggio, a volte un giardino”.
La pandemia ci ha fornito qualche lezione?
“Abbiamo avuto bisogno di una pandemia per pensare a una cosa semplice come la necessità di aprire una finestra per avere aria fresca. Speriamo che ciò che abbiamo vissuto tutti ci aiuti a cambiare in modo positivo la relazione con lo spazio costruito, ma più di tutto ci faccia capire che aspettare che accada un disastro per affrontare il modo in cui costruisci o pensi è un modus vivendi troppo rischioso, che non possiamo più permetterci”.
Venezia le è d’ispirazione?
“Ogni volta che arrivo in questa città penso al fatto che l’architettura ha lottato per essere qui, ingaggiando una battaglia con la gravità e con la logica. Venezia si presenta come illogica, e per questo motivo è il luogo ideale per fare una Biennale che sia una bottega che progetta il futuro. Questo luogo ti apre al nuovo e ti mostra che un altro modo di vivere e di costruire è possibile, e lo è già stato in passato. E poi è così esposta al cambiamento climatico: Venezia è il nostro barometro”.