Quando diciamo che un certo autore non fa che scrivere lo stesso libro attestiamo, come sempre capita con le frasi fatte, qualcosa di vero in modo improprio e superficiale. In particolare, non consideriamo un aspetto essenziale e cioè che i racconti sono gabbie. Raccontare è sì liberatorio e curativo – altro mantra che sentiamo ripetere con scarso criterio – ma anche questa è una verità parziale o, a seconda dei casi, solo apparente. Può senz’altro accadere che, raccontando, si sciolgano nodi, si elaborino traumi, ma questo non implica automaticamente che ci si liberi del passato o si giunga a farsene una ragione.

La solacertezza è che nel momento stesso in cui gli diamo una forma, che sia verbale o scritta, reale o trasfigurata in finzione, il ricordo si cristallizza in un racconto restandone rinchiuso o comunque invischiato. Si evade da un carcere per scoprire che il mondo di fuori è anch’esso una cella, solo più grande. Va poi messo in conto che il potere delle storie è una variabile che patisce il passare degli anni. Più si invecchia, più difficile diventa la sospensione dell’incredulità – della disillusione, a essere precisi – e meno un romanzo offre soluzioni o vie di uscita: «Il desiderio di scrivere narrativa aveva continuato a pulsare fievolmente dentro di me per anni ma non nel contesto di quella che ora consideravo la pseudoenclave del romanzo».

A scrivere queste parole è Bret Easton Ellis in Bianco, libro del 2019 in cui per la prima volta abbandonava la narrativa per la cosiddetta nonfiction. In quelle pagine, sospese tra il diario in pubblico e il rimuginio a alta voce, l’invettiva nostalgica e la critica sociale, si aveva tuttavia l’impressione che a parlare fosse sempre uno dei suoi personaggi, tanto che qualcuno osservò non senza ragione che il libro sembrava un delirio di Pat Bateman, il giovane esperto di fusioni e acquisizioni che di giorno lavorava a Wall Street e la notte si trasformava in un serial killer.

Il protagonista di American Psycho era del resto già ricomparso in altri tre libri, a conferma di quanto l’ipotesi di partenza – il ciclico ripensamento di una stessa storia – fosse giustificata. Quel mostro capace di nefandezze efferate è presente o meglio evocato anche nel suo ultimo romanzo, Le schegge (traduzione di Giuseppe Culicchia, Einaudi, pp. 752, € 23,00). Dopo un silenzio durato ben tredici anni, Ellis ha deciso infatti di tornare nella pseudoenclave.

Silenzio, va detto, in senso figurato, perché in questo lasso di tempo hanno visto comunque la luce una webserie, varie sceneggiature inclusa quella di un thriller erotico diretto da Paul Schrader, un’infinita di tweet e un buon numero di podcast con interviste a persone più o meno note, nonché lunghi monologhi, poi confluiti in Bianco. Una dispersione in altri lidi motivata dall’accoglienza non felicissima ricevuta nel 2010 da Imperial Bedrooms e il conseguente bisogno di trovare una strada in quest’epoca di transizione, di lasciarsi alle spalle il mondo in cui la finzione letteraria aveva ancora una rilevanza sociale. Che un nuovo romanzo fosse infine alle viste è stato lo stesso Ellis a rivelarlo un paio di anni fa con un podcast. Ogni due settimane ne leggeva un capitolo, rispolverando in forma digitale l’usanza ottocentesca del racconto a puntate. All’inizio non era chiaro se queste letture andassero intese come un’anticipazione o fossero destinate a restare un’opera orale.

Ora è arrivato il libro stampato, Le schegge appunto, che si rivela fin da subito un ritorno sul luogo del delitto in tutti sensi, un ritorno cioè tanto al romanzo come genere quanto – e soprattutto –al suo romanzo d’esordio, quel Meno di zero in cui alcuni videro il ritratto di una nuova generazione perduta e altri l’espressione di un nichilismo vacuo e fuori dal mondo, perché i personaggi descritti erano talmente ricchi e stupidi e narcisisti da risultare inverosimili.

SeImperial Bedrooms ci raccontava cosa ne era stato di Clay e i suoi amici proponendosi di fatto come un seguito del libro con cui Ellis conquistò la fama appena ventunenne e da cui in fondo non si è mai liberato, Le schegge ne è il prequel narrato dal guado della mezza età avanzata. Con un impianto simile a un altro suo romanzo ancora, Lunar Park, dove l’autore poneva sé stesso al centro di un finto memoir dalle tinte horror, questa nuova rivisitazione ci porta infatti nella Los Angeles del 1981, a quando un giovanissimo Bret, spesso fatto di Valium, erba o cocaina, sceglie quale modello la prosa scarna di Joan Didion e comincia a scrivere Meno di zero, lasciandosi al contempo attrarre da un ragazzo affascinante e misterioso, tale Robert, apparso nell’esclusivo liceo privato frequentato dal futuro scrittore, proprio mentre un serial killer chiamato il Pescatore a Strascico prende di mira le adolescenti della zona. Intorno si muove una grande e angosciosa festa del nulla. Soldi, droga, musica, sesso, indifferenza a ogni cosa fuorché al piacere e al presente più immediato, in una città e in un’epoca che vedono nel cinema una forma di religione sulfurea.

Questa esistenza «sovreccitata, vagamente pericolosa, in qualche modo sessualizzata… come in un film» viene assimilata già nell’incipit all’ambiguità dei sogni, perché per Ellis, narratore inattendible dai tempi di Amerian Psycho, «un romanzo è come un sogno che chiede di essere scritto nello stesso modo in cui ci s’innamora di qualcuno» e, come un sogno, poggia su esperienze reali ma sconfina fatalmente nelle nebbie del delirio. Ecco allora un Ellis ormai sessantenne presentarci il giovanissimo Bret di un tempo non come la persona che pure in effetti egli è stato, ma come un altro da sé, quasi un reperto archeologico, un fantasma, una figura mitica cui conferire consistenza e verosimiglianza.

In questo, il romanzo coglie un tratto dello spirito odierno, la sensazione che tra il passato analogico della generazione X e il presente digitale cui ci siamo abituati con incredibile facilità si sia aperta una faglia e che questo smottamento gigantesco e tuttavia silenzioso e apparentemente indolore, abbia reso alieni quegli anni perfino agli occhi di chi li ha vissuti. Si spiega così la profusione infinita di dettagli, le continue descrizioni di luoghi, auto, vestiti, le lunghe conversazioni maniacalmente riportate parola per parola malgrado non aggiungano nulla a una storia a conti fatti latitante, confusa nel sovrapporsi continuo di intrecci secondari, in bilico tra tanti generi, dal romanzo di formazione a quello criminale.

«Non aveva una vera e propria trama, c’era solo un tono sordo, divagante, che cercavo di perfezionare» dice Ellis del libro che Bret andava scrivendo allora. Un libro che parlava di me, aggiunge. Un me dissolto in un turbinio di frammenti, schegge estremamente definite e particolareggiate ma pur sempre schegge che necessitano di una maschera per restituire una visione di insieme. La vera storia non può dunque essere altro che la vita intesa come performance, interpretazione di un copione, messa in scena di un sogno. Allestendo l’ennesima ossessiva e paranoica parodia di sé, deformandosi alla stregua di un fenomeno da baraccone senza temere il ridicolo, Ellis ha scritto uno dei suoi libri migliori e commoventi quando nessuno – lui per primo – se lo aspettava più.