L’Italia pare davvero la Nave dei Folli. Ci stiamo giocando i fondi europei. Stiamo mandando in fumo almeno metà dei 191,5 miliardi che l’Europa ci ha messo a disposizione di qui al 2026. In un impeto di dissennato autolesionismo, sembriamo quasi sollevati nel riconoscere che “non c’è niente da fare”. Sembra quasi di cogliere un senso di liberazione, nel mondo politico e imprenditoriale che alza le mani e dice “non possiamo farcela”, “il Sistema-Paese non è in grado di spendere un volume di investimenti di quella portata”, “la nostra burocrazia non ce lo permette”, “gli enti locali non hanno capacità progettuale”, “i grandi contractor pubblici e privati più di tante risorse non possono assorbire”. Siamo onesti. È vero che l’Italia, su riforme strutturali e investimenti infrastrutturali, ha difficoltà ataviche e non risolvibili in pochi mesi. Se così non fosse, non saremmo il fanalino di coda sull’utilizzo dei Fondi di coesione.
Ne riusciamo a spendere una quota annua inferiore al 60 per cento. Ma è altrettanto vero che il Next Generation Eu era e sarebbe ancora l’occasione per invertire la rotta. O almeno per provarci. Ma non sta succedendo. Viceversa, anche in questa circostanza riusciamo a sfoderare la solita, ineluttabile “sindrome del fallimento”. Come se fosse vano dare il massimo per portare a casa il risultato. Del resto, se in un anno abbiamo completato l’1 per cento dei progetti e speso il 6 per cento dei finanziamenti, non può dipendere solo dallo storico deficit di efficienza della macchina statuale. C’è dell’altro. Un tempo si sarebbe detto “manca la volontà politica”. Oggi, forse, è ancora così. O per lo meno questa è la sensazione, e la preoccupazione, che si toccano con mano tra le istituzioni europee. Colpite da un certo stupore, mentre contemplano l’affannata inconcludenza tricolore.
Sergio Mattarella, che con le istituzioni comunitarie mantiene contatti quotidiani, ne è ben consapevole. Per questo il 24 marzo ha suonato l’allarme, riprendendo l’appello post-bellico di De Gasperi: “E’ il momento per tutti, a partire dall’attuazione del Pnrr, di mettersi alla stanga”. Sono passati dieci giorni, ma “alla stanga” pare non si sia messo nessuno. Hanno parlato ministri e sottosegretari, leader di partito e esponenti della maggioranza, presidenti di regione e sindaci. Tutti si sono limitati a prendere atto dei ritardi, e a rinnovare generici propositi di accelerazione. Anche per questo il presidente della Repubblica ha voluto incontrare Giorgia Meloni, venerdì scorso, e spronarla a fare atti concreti per sbloccare gli ingranaggi dell’Amministrazione e della gestione.
Lo stesso sollecito, in modo formale e informale, è arrivato anche da Francoforte e da Bruxelles. Christine Lagarde, nella sua due giorni fiorentina organizzata dall’Osservatorio Permanente Giovani Editori di Andrea Ceccherini, lo ha detto ai tanti interlocutori istituzionali che le hanno chiesto lumi sulle difficoltà nella messa a terra del Pnrr: “Italy must deliver it… Please, let’s do it!”. Quasi una preghiera. E si capisce perché anche la presidente della Banca Centrale Europea speri nel nostro Piano di Ripresa e Resilienza. Nutre la stessa apprensione che comincia a insinuarsi tra i mercati finanziari, per ora rimasti in posizione neutral sull’Italia, complice la buona tenuta dei conti pubblici che ha mantenuto basso lo spread dei nostri titoli di Stato. Ma nessuno può prevedere cosa potrebbe succedere, nel momento in cui il governo dovesse davvero gettare la spugna, e perdere le prossime due rate del Pnrr previste di qui alla fine dell’anno.
Paolo Gentiloni lo ripete da settimane: “Il Pnrr deve diventare un’ossessione per la politica italiana”. Nelle occasioni pubbliche si mostra ottimista: “Sono convinto che il governo sia consapevole della posta in gioco, il quadro congiunturale sull’Italia è positivo, e la terza tranche dei fondi non è in discussione…”. Ma nelle conversazioni private il Commissario Ue è assai più perplesso: “Sento un clima che non mi piace, vedo troppa gente che si frega le mani perché l’economia regge e che invece se ne frega del Pnrr. Ma ci rendiamo conto che quella è l’unica chance che il Paese ha per avviare un percorso di vera crescita? Pensiamo davvero di potercela giocare così, dicendo semplicemente ‘non ce la facciamo’? Sarebbe un errore fatale, che pagheremmo noi e le future generazioni…”. A Bruxelles questo timore è molto più forte di quello che sembra. Nessuno getta la croce addosso a Meloni, nessuno erige statue equestri a Mario Draghi e meno che mai a Giuseppe Conte, nonostante l’autoesaltazione con la quale celebra la sua “battaglia vinta per portare a casa 209 miliardi” (mentre è noto che nella valigetta con la quale è tornato a Roma dopo l’ultimo vertice europeo non c’era ancora niente). Ma una cosa sembra certa: con Draghi a Palazzo Chigi almeno “la stanga” funzionava, la pressione sulle strutture tecnico-ministeriali, sulle Ferrovie, sulle Regioni era forte e costante. La paura è che adesso questa “tensione positiva” sia venuta meno. Che il fiato sul collo da parte della struttura guidata dal sottosegretario Mantovano non si senta più. Che il sistema stia mollando proprio perché, tanto, “non ce la faremo mai”.
La prova di questo cedimento, dal punto di vista europeo, sta in un fatto oggettivo. Come ha detto a La Stampa un ministro, bisognerebbe o “rinunciare almeno alla metà dei 200 miliardi previsti” oppure “chiedere all’Europa un rinvio”. Altri membri del governo insistono a dire che bisognerebbe “cambiare il Pnrr”. Il responsabile del Piano, Raffaele Fitto, si limita a ripetere che “ci sono risorse che si possono spostare sui Fondi di coesione”. A parte la “cacofonia totale”, come dicono i commissari, quello che conta è che in realtà, finora, “a Bruxelles non è arrivata nessuna richiesta da parte del governo italiano”. Gentiloni non se ne fa una ragione, e lo dice ormai quasi ogni giorno: “Siamo pronti a trattare con l’Italia, come abbiamo già fatto con la Germania e con la Spagna: da parte della Commissione c’è il massimo della disponibilità e della flessibilità…”. Ma il paradosso è proprio questo: finora, a Palazzo Berlaymont, nessuno ha bussato né ha fatto una telefonata. Per questo, al momento, nelle sedi comunitarie “nessuno sa quale sia il reale stato di attuazione del Pnrr, nessuno sa quale sia la proposta di modifica del governo di Roma”.
Eppure c’è in ballo una manna da una quarantina di miliardi. “Praticamente una Legge finanziaria l’anno, di qui al 2026”, come la definisce Gentiloni. Se ne può fare a meno, per tornare a vivacchiare con un Pil che cresce dello 0,6 per cento, meno della metà della media Ue? La terza rata arriverà a giorni. Ma di questo passo, che ne sarà delle altre due tranche di fine giugno e di fine dicembre? E di quelle successive? Se tra i patrioti e i sovranisti c’è ancora chi immagina un’Europa che vuole sabotare o a fare dispetti al Belpaese, e sogna di dare la colpa a Bruxelles per l’eventuale Caporetto sul Pnrr, è decisamente fuoristrada. Mai come oggi a Bruxelles c’è una ferma determinazione a trattare con la premier italiana. Anche perché conviene: a conti fatti, Meloni “guida il governo più stabile d’Europa”, tra Macron che è ormai in minoranza nell’Assemblea Nazionale e nelle piazze, Scholz fermo al semaforo come la sua coalizione, la Spagna e la Grecia già paralizzate dalla campagna elettorale, l’Olanda di Rutte che col suo 12 per cento guida un Parlamento con ventuno partiti.
Anche per questo la Sorella d’Italia farebbe bene a cogliere l’attimo. E a non lasciarsi sfuggire l’occasione di negoziare subito un buon accordo con la Commissione. Alzare bandiera bianca, adesso, sarebbe una resa costosa e rischiosa, oltre che disonorevole per tutti. A meno che Meloni non abbia un’altra idea in testa: sacrificare il Pnrr, far esplodere il dramma migranti e poi, nella campagna elettorale del 2024, lanciare la Grande Crociata contro l’Europa guidando tutti i partiti conservatori dell’Unione. Ma non ci vogliamo credere. È un’idea troppo pazza per essere vera.