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Roma
La cattedra della fragilità. Papa Francesco, il primo Papa che trascorre un anniversario di pontificato in ospedale, sta aggiungendo anche questo aspetto al suo già corposo magistero. A sottolinearlo, proprio nel giorno in cui si compiono dodici anni da quel famoso 13 marzo 2013, è il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi e uno dei principali collaboratori di papa Bergoglio, fin dai tempi del C9, la commissione dei cardinali per la riforma della Curia, di cui il porporato pugliese, all’epoca vescovo di Albano, era il segretario.
Eminenza, che cosa ci sta insegnando il Papa con questa degenza?
«Innanzitutto ringraziamo il Signore per le notizie buone degli ultimi giorni e facciamo gli auguri al Papa sia per la salute che per questo anniversario. Penso che anche una simile coincidenza possa essere collegata con un aspetto sul quale papa Francesco insiste nel suo magistero. La fragilità. L’uomo è fondamentalmente un essere fragile. Nella nostra epoca, è vero, viene esaltata la sua potenza, ma questa visione è stata messa in crisi dalla pandemia. Evidenziare la fragilità significa, invece, sottolineare la responsabilità della cura in tutti i suoi aspetti. Per noi ecclesiastici, tradizionalmente, si parla di cura animarum. Ma per anime, in latino, si intendono anche le persone. E la cura non si riferisce solo all’aspetto medicinale, ma anche a quello di premura, di attenzione, di sollecitudine, di misericordia. La fragilità fa appello a questi valori che forse noi abbiamo dimenticato e che invece papa Francesco ci ha sempre ricordato in questi dodici anni, sull’esempio di Gesù, il quale si prendeva cura in tante forme delle persone che incontrava. Oggi anche la degenza del Papa conferma che questo è un aspetto importante del suo magistero».
Si può dire che questi giorni ci aiutano a fare un ripasso dei temi portanti del pontificato?
«Certo. Si pensi anche al tema delle periferie. E la malattia spesso è considerata una periferia esistenziale. Quando si è presentato, la sera del 13 marzo 2013, ha detto che veniva dalla fine del mondo e bbiamo pensato a un continente lontano. Ma dopo dodici anni possiamo comprendere che con quelle parole egli stesso si è qualificato come uno della periferia e la periferia è anzitutto un luogo di cura, perché è un luogo di scarto. Il suo è un modo diverso di leggere la realtà. Altro è guardare il povero dal centro, altro dalla sua stessa prospettiva periferica. Questa è una delle novità più grandi del pontificato. Unita alla capacità di esprimere concetti antichi in forma nuova».
Ad esempio?
«Ad esempio che il povero non è quello al quale io do un soccorso, ma quel povero sono io che a mia volta chiedo che ci siano spazi di cura. Pensiamo anche al tema della pace e ai suoi appelli in tal senso. Oggi siamo tornati alla logica del “se vuoi la pace, prepara la guerra”. E invece la pace si prepara con la pace. E anche dal Gemelli, come abbiamo visto, sta esercitando un magistero in questo senso. Egli continua, pur in una situazione di fragilità, a governare la Chiesa. Che non significa solo fare le nomine episcopali, ma dare indirizzi e prospettive».
C’è un momento di questi 12 anni più iconico degli altri?
«Le immagini del 27 marzo 2020 durante la pandemia davvero sono molto importanti. Il Papa era solo, ma non era isolato. In quella solitudine si è reso solidale con tutte le solitudini del mondo. Ma voglio anche ricordare la scelta di dedicare un Anno Santo alla misericordia e il suo insistere sulla sinodalità, che traduco non come un semplice camminare insieme (anche gli eserciti camminano; e si può camminare per fare una semplice gita). Per me sinodalità è incontro. Camminiamo per incontrarci attorno a un punto che unifica tutte le periferie. Il centro che è Gesù Cristo. In Lui tutte le diversità si riconciliano».
Insieme a queste tematiche si può mettere anche la gioia?
«Sicuramente. E proprio a partire da Evangelii gaudium, che è il programma del suo ministero petrino. Ma penso anche ad Amoris laetitia per le famiglie o a Gaudete et exsultate, l’appello alla santità, che è la vocazione comune per tutti».
C’è un santo proclamato da papa Francesco che riassume più degli altri la cifra del suo pontificato?
« Mi viene in mente Scalabrini, la figura di un missionario. Papa Francesco ha fatto della Chiesa in uscita, cioè missionaria, estroversa, uno dei suoi cavalli di battaglia. E non nascondo che vedo una grande tentazione per la Chiesa di oggi, che è esattamente l’opposto della missionarietà. La tendenza al narcisismo, all’autoreferenzialità. Ascoltiamo maggiormente l’invito missionario del Papa».
Ma è vero che Francesco è più amato fuori dalla Chiesa che dentro?
«Credo che questa sia una manipolazione della realtà. In fin dei conti tutti i Papi hanno avuto oppositori. Pensiamo agli osteggiamenti per Paolo VI, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. È pericoloso procedere a colpi di maggioranze bulgare. Quindi che ci siano dei dissensi è fisiologico. Jean Guitton, amico di Paolo VI, diceva che il miglior allievo non è quello che ti dice sempre sì, ma quello che obietta. Certo, bisogna vedere per quali ragioni si fanno le obiezioni. Se per partito preso o per scelta ideologica o incapacità di dialogo o in base a visioni di Chiesa che non sono più significative per l’uomo di oggi. Oppure per aiutare il Papa nel suo ministero. Francesco stesso su alcune questioni organizzative ha modificato la legislazione e le decisioni. Al di là di questo, penso però che ci sia oggi molta partigianeria fuori e dentro la Chiesa. Questo non va bene».
Siamo nel Giubileo della speranza. Può essere proprio la speranza il motore di questa ulteriore parte del pontificato che si inaugura oggi?
«L’aspetto giubilare è una dimensione che il Papa non ha utilizzato solo per la scadenza venticinquennale. Accennavo prima al Giubileo della misericordia. Quindi la questione giubilare, per Francesco, ha un valore teologico. Il tema del Giubileo è quello della remissione, non della rivendicazione o della resa dei conti. È un modo di intendere la relazione, con uno sguardo di comprensione che abbraccia anche chi ha sbagliato. Questo concetto ricorre spessissimo nel suo magistero. Ricordiamo per esempio le omelie di Santa Marta, che pur non facendo parte del magistero ufficiale, rivelano il suo animo. Nel tema della remissione c’è anche la questione dell’incontro di cui il Papa ci ha sempre parlato».
Possiamo dire dunque che questo Giubileo della speranza è anche il Giubileo della “Fratelli tutti?”
«Aver messo come tema la speranza è importante. E mi piace molto un’etimologia che ho trovato in Isidoro di Siviglia, il quale diceva che per comporre la parola speranza ( spes in latino) bisogna aggiungere una esse a piede ( pes) e quindi dare una spinta. La speranza è la virtù che ti fa camminare, non è semplice attendere, ma tendere attivamente. Il Concilio Vaticano II afferma che sbaglierebbe chi pensasse che la speranza mi distoglie dall’impegno nell’attività terrena. Anzi mi incoraggia, perché è qui che io costruisco il mondo nuovo. Proprio quello che papa Francesco ci sta insegnando».