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C’è un’immagine che più di ogni altra racconta il New Yorker: Eustace Tilley, il monocolo, il gesto sospeso tra ironia e distanza. Oggi quell’icona porta la scritta “100 YEARS” e smette di essere solo una copertina celebrativa. Diventa la sintesi di un secolo di scrittura che ha fatto del tempo lungo la propria unità di misura: reportage, critica, narrativa, commento, tutti tenuti insieme da uno sguardo capace di durare.
Dentro questo secolo ci sono soprattutto le vite che hanno attraversato il Novecento e oltre, lasciando tracce che non invecchiano. Calvin Tomkins compie cento anni e lo fa scrivendo. Aveva pubblicato sul New Yorker prima che Barack Obama nascesse e, nel numero attuale, affida ai lettori il diario del suo centesimo anno. Non un bilancio solenne, ma una sequenza di ricordi minimi, tra cui un piccolo attrito sulle piste da sci con Roger Angell, l’editor e autore che lo aveva spinto a scrivere per la rivista. Un conflitto leggero, risolto a cena: quasi una scena esemplare di un mondo in cui le cose mantengono proporzione.
Angell, del resto, aveva già detto l’essenziale nel 2014, quando a novantatré anni pubblicò un saggio sull’arrivare alla vecchiaia che resta uno dei testi più lucidi mai apparsi sul tema. Immaginava lo stupore di chi lo incontrava per strada: “Holy shit—he’s still vertical!”. Niente sentimentalismi, nessuna posa eroica. Solo l’osservazione che i vecchi portano con sé una rubrica ingombrante di morti, e che paradossalmente pensano meno alla morte di quanto facessero da giovani. I dolori non spariscono, ma non cancellano una constatazione disarmante: come la maggioranza delle persone sopra i settantacinque anni, Angell si dichiarava fondamentalmente felice. È morto nel 2022, a centouno anni. La sua scrittura, invece, continua a camminare.
Attorno a queste figure, l’archivio del New Yorker funziona come una memoria attiva, non come un mausoleo. Grace Paley, nel 2002, mette in scena un padre che parla della vecchiaia con ironia brusca e affetto severo, chiedendo di non essere interrotto mentre trasmette verità che solo il tempo rende disponibili. Un documentario racconta una nonna novantenne che si allena nel sollevamento pesi, mostrando un corpo che non si limita a ritirarsi, ma insiste, resiste, rilancia. E poi c’è l’attualità, che entra senza chiedere permesso: il linguaggio degradato del potere, il lutto trasformato in apertura verso gli altri, la cronaca che costringe lo sguardo a non distogliersi.
Il filo che tiene insieme tutto questo non è la nostalgia, ma la durata. Il New Yorker non celebra la longevità come eccezione biologica o come record, bensì come possibilità di senso. Scrivere e leggere diventano così esercizi di attenzione, pratiche che attraversano le età della vita e tengono testa alla fretta del presente. Forse è questo, a cent’anni, il lascito più sobrio e più radicale della rivista: non l’illusione di restare giovani, ma la scelta di restare in piedi.





