harry l’americano
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11 Gennaio 2023Qualche anno fa, prima dell’inizio della pandemia, nei vagoni della metropolitana di New York poteva capitare di imbattersi in alcuni versi stampati su un manifesto, su sfondo grigio-blu: «I watch the smoke mount / in great stride above the city. / I belong to no one…». Qualcuno guarda il fumo salire sopra la città, sente – un po’ come quel fumo – di non appartenere a nessuno. Poi si ricorda, improvvisamente, delle sue scarpe («Then I remember my shoes»): mentre le allaccia, i suoi occhi tornano a guardare «into the earth», ad agganciare la sua vita alla terra. È una breve poesia – intitolata semplicemente Poem – di Charles Simic, scomparso il 9 gennaio a ottantaquattro anni, dopo più di cinquanta passati a scrivere e a guadagnarsi un posto insostituibile nel panorama della lirica mondiale. Fatti di niente, divisi fra cielo e terra – fra leggerezza e concretezza – quegli stessi versi appesi nella subway newyorkese sembrano un emblema di Simic, della sua natura di poeta bifronte, abitato dagli opposti: dalla ricchezza inesauribile del mondo.
«DOPPIA» era, del resto, la sua stessa biografia. Di origine serba – era nato a Belgrado, nel 1938 – Simic viveva negli Stati Uniti dall’età di quindici anni e si era impossessato presto della lingua e della cultura americana, restando come in bilico fra Vecchio e Nuovo Mondo: lettore della poesia europea ma insieme interprete di un grande artista americano come Joseph Cornell (cui è dedicato il suo bellissimo Il cacciatore di immagini, pubblicato in italiano da Adelphi); figlio del Libro e della sua civiltà, ma perdutamente innamorato del cinema; traduttore in inglese del poeta serbo Vasko Popa ma legatissimo ai suoi contemporanei statunitensi, a cominciare da due poeti poco più anziani di lui come Mark Strand e Charles Wright.
Poche vite come la sua hanno saputo disegnare una parabola che sembra così intimamente, così naturalmente «occidentale». Perché Simic è stato, anzitutto, uno straordinario custode della tragedia del Novecento, uno che aveva il sonno leggero – un Light Sleeper, come dice in una sua poesia – proprio perché è stato «witness / to so many crimes», testimone di tanti crimini. Uno che ha continuato ad aggirarsi, anche nella memoria, fra le strade della sua Belgrado bombardata «reduced to ruins»: con quelle stesse rovine, avrebbe detto Eliot, ha puntellato i suoi frammenti (intingendoli sempre, però, in un’ironia perlopiù sconosciuta a tanta grande poesia novecentesca).
Allo stesso tempo, pur portando con sé il peso violento della Storia, Simic non ha mai smesso di coltivare il futuro: nei suoi versi Storia e Felicità hanno anzi tentato a lungo di convivere (in Walking the black Cat, una raccolta uscita nel 1996, una History «cruel and mistic» era evocata insieme a quell’happiness che proprio la dichiarazione d’indipendenza americana insegnava a considerare un diritto dell’essere umano, anche se dell’American Dream Simic ha ben visto tutti i limiti, osservandoli con intelligenza e disincanto).
FORSE la migliore didascalia per leggere questo splendido poeta si trova in alcuni versi del suo Baudelaire: il primo che ci ha accompagnato «dentro le pieghe sinuose delle / antiche capitali, ove ogni cosa / si converte in incanti, anche l’orrore». Proprio la città, ha scritto in effetti Simic, è «un’immensa macchina di immagini», e proprio le strade – di New York, o di Chicago – hanno fatto sì che la sua poesia abbia assunto la forma di un caleidoscopio prodigioso, capace di mescolare un frammento di Eraclito con la smorfia stralunata di Buster Keaton, un Veterano del Vietnam in stampelle con la statua di Niobe, uno scarafaggio con la nonna, con le nevi dell’infanzia.
Poco propensa a prendersi troppo sul serio – e tantomeno incline alla didassi, all’esempio moraleggiante – la poesia di Simic rimane comunque la poesia di un «sapiente», e sia pure un sapiente in maniche di camicia, un metafisico che brancola però nell’oscurità. Resta, la sua poesia, soprattutto un atto di fiducia nei confronti della realtà: attaccata alla strada, alle cose più che ai pensieri («La poesia mi attrae – ha scritto Simic – perché dà filo da torcere ai pensatori»).
Viene in mente, ora che il suo autore non c’è più, il titolo della sua raccolta più recente, del 2022, un titolo che suona ora davvero come una condanna, come l’ultima parola: No land in sight. Non c’è più terra in vista, non soffia più il vento. Non resta che aggrapparsi a un altro suo titolo, che ci suggerisce invece che the world doesn’t end (Il mondo non finisce, uscito in Italia per Donzelli, nel 2001). Chissà se è vero. Certamente non finirà la sua poesia, impossibile fermo-immagine della Fine, parola che sa dire l’indicibile: «Things unspeakable! / The scent of summer night. / The street at dusk / like a fading memory of a golden moment / at the vanishing point».