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di Giuseppe Sarcina
La deriva Usa avversa all’Europa spinge i Ventisette a cercare nuove soluzioni: rapporti più stretti con i Paesi vicini, patti industriali e un approccio pragmatico con Pechino
Dopo il trauma, dovrebbe essere il momento delle idee e, allo stesso tempo, delle proposte. Il documento sulla «Strategia di sicurezza nazionale», pubblicato venerdì dalla Casa Bianca, con quella sfida diretta alle istituzioni europee, impone un cambio di passo a Bruxelles e ai governi del Vecchio Continente. La questione più urgente resta il rapporto con Vladimir Putin e il sostegno alla resistenza ucraina. Ma servirebbero scelte anche sul medio-lungo termine, per smentire la sinistra profezia di Donald Trump, o meglio del suo vice JD Vance: «Tra vent’anni l’Europa sarà irriconoscibile, rischia l’estinzione».
I rapporti compilati da Mario Draghi e da Enrico Letta hanno tracciato la rotta per aumentare la competitività nei settori chiave: energia, difesa, digitale, intelligenza artificiale. In particolare, Draghi ha suggerito, fin dal settembre 2024, 383 misure da adottare al più presto. Ad oggi, però, solo il 10% del pacchetto risulta applicato. La deriva americana sta rilanciando il confronto anche su soluzioni con effetti immediati.
Il campo largo dell’Ue
Per cominciare, sta prendendo quota una visione più larga di Europa. I rapporti tra il Regno Unito e i Paesi Ue stanno diventando sempre più stretti. Attenzione, nessuno immagina un clamoroso rientro dei britannici nell’Unione. Le ferite della Brexit continuano ad alimentare il risentimento di diversi dipartimenti nella Commissione europea. Ma sul piano politico, Londra sembra aver accantonato, almeno per il momento, il disegno dell’autosufficienza britannica. La necessità di arginare l’aggressività di Putin ha spinto il premier Keir Starmer a stringere quella che sembra una vera alleanza strategica con Parigi, Berlino, Varsavia, Roma. E non solo. I britannici hanno intensificato i contatti, già regolari, con il «Nordic-Baltic Eight», un formato che riunisce Danimarca, Estonia, Lettonia, Lituania, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia. Si sta dunque allargando il fronte anti Putin anche a Paesi fuori dall’Unione europea. Per altro arrivano segnali non scontati da realtà lontane, come il Canada, la Nuova Zelanda, l’Australia, il Giappone. Potrebbero esserci le potenzialità per la crescita per una specie di «campo largo», imperniato sull’Unione europea.
La lista del 2024
Draghi aveva promosso 383 misure da applicare: l’Ue ne ha approvate solo il 10%
Fondi e accordi
Questa prospettiva politica, però, è insidiata dall’avanzata dei partiti sovranisti in Germania, Francia e nello stesso Regno Unito. Starmer e gli altri, dunque, saranno costretti ad accelerare. Per prima cosa le intese politiche dovranno poggiare su solide basi materiali, costruite con accordi commerciali e industriali. Nel breve uno dei test più interessanti sarà la gestione del «Safe» («Security Action for Europe»), il fondo da 150 miliardi di euro istituito dalla Commissione europea. I soldi serviranno a finanziare piani di investimento per la difesa presentati da almeno due Stati tra i 27 della Ue, più Ucraina e i quattro dell’Efta, cioè Norvegia, Islanda, Liechtenstein, Svizzera. Le lobby delle nazioni escluse sono in moto da tempo per poter essere ammessi all’assegnazione di queste risorse. Tra i diplomatici europei si sta discutendo se allargare il «Safe», per esempio, al Regno Unito e poi, forse, anche ad altri. La collaborazione industriale tra britannici ed europei è una possibile chiave per rafforzare la difesa dell’intero continente. Le premesse ci sarebbero. Il ministero della Difesa britannico, per esempio, sta valutando l’assegnazione di un’importante commessa al gruppo italiano Leonardo, per rimpiazzare la storica flotta di elicotteri da combattimento «Puma».
La pista cinese
La crisi con l’America sta ridando spazio ai fautori di una maggiore apertura alla Cina, come, per quanto riguarda l’Italia, Romano Prodi o l’economista Giovanni Tria, già ministro nel governo Lega-Cinque Stelle. Il punto non è solo diversificare i flussi commerciali. Le cifre mostrano quanto sia ancora forte la dipendenza dall’America. Nel 2024 lo scambio transatlantico di beni e servizi è stato pari a 1.700 miliardi di dollari, contro gli 845 miliardi di dollari tra Ue e Cina. Ora si pensa a una collaborazione più matura. Nel concreto: l’Unione europea, esattamente come gli Stati Uniti, ha vitale bisogno delle terre rare nelle mani di Pechino. In cambio di queste forniture, potrebbe accogliere investimenti cinesi ad alto contenuto tecnologico. È una tesi ardita, che sarebbe stata respinta solo un anno fa, poiché gli europei condividevano la linea americana di Joe Biden: il dinamismo cinese va contenuto in ogni area del mondo. Ma Trump vuole tenersi le mani libere e trattare anche con Xi Jinping. E allora, in Germania, in Spagna, in Grecia e anche in Italia, cresce il fronte di chi domanda: se lo fa Trump, perché non possiamo farlo anche noi?





