“Kalimèra”, dice il giornalista greco a Giorgia Meloni, dandole il buongiorno nella sua lingua e al contempo, senza volerlo, chiamando la presidente del Consiglio con il soprannome, Calimera, che aveva da Gabbiana, ai tempi in cui frequentava la sezione del Movimento sociale italiano di Colle Oppio a Roma. Ieri, nel corso della conferenza stampa di fine anno, è andata in scena un’altra lotta serrata tra Meloni, la premier che vorrebbe farsi statista, e Calimera, la leader di un partito che ha eletto alla seconda carica dello Stato un nostalgico fascista e che annovera tra le sue file chi esalta il fascista e ordinovista nero Pino Rauti.
Meloni, che già recentemente aveva avuto qualche problema nel rispondere alle domande della stampa, ha cercato il più possibile di tenere a bada Calimera. Ha risposto quasi sempre senza perdere la calma, contenendo i decibel, che tendono subito a salire quando s’adira: pause, toni concilianti, la palpebra che resta abbassata qualche secondo in più a restituire quel senso di controllo che altre volte era mancato. Solo qualche smorfia e la fronte aggrottata in occasione delle domande meno gradite. Ma nella sostanza Calimera è spuntata più volte, come quando a una domanda sui condoni e sullo scudo penale agli evasori ha risposto parlando dei negozietti gestiti da stranieri; quando ha spiegato di volere il presidenzialismo e di essere pronta a coinvolgere l’opposizione in una Bicamerale ma «solo a patto che la riforma si faccia»; o ancora quando, sollecitata proprio da Repubblica a spiegare perché avesse parlato solo di tamponi e controlli ma non di vaccini davanti al rischio di una nuova ondata pandemica dalla Cina, ha dato una risposta di cui Matteo Salvini sarà stato orgoglioso: «Noi invitiamo a vaccinarsi le categorie a rischio, gli altri parlino con il medico di base». In assoluto la risposta più corta di tutta la conferenza, che tradiva un palese imbarazzo ad affrontare la questione. Poco di cui stupirsi, del resto, Fratelli d’Italia ha mandato a fare il sottosegretario alla Salute Marcello Gemmato, noto per aver detto «non cado nella trappola di schierarmi a favore o contro i vaccini» e ancora «non abbiamo prove che la pandemia sarebbe andata peggio senza i vaccini».
Ma dove Calimera si è mangiata Meloni in un boccone è nella risposta sugli omaggi di La Russa e Rauti al Movimento sociale italiano. Le è stato chiesto: «Condivide quegli omaggi?». E lei si è prodotta in un clamoroso elenco di mistificazioni storiche, rimuovendo del tutto la natura politica del partito che l’ha svezzata («Il Msi era espressione della destra democratica e repubblicana », una frase che varrebbe la bocciatura in un qualunque esame dalla terza media all’università). Quindi ha aggiunto che il Msi si è sempre schierato «contro la violenza politica». Il Msi, il partito di cui fu segretario Giorgio Almirante, ex segretario di redazione della Difesa della razza , e caposquadra dei picchiatori fascisti all’università La Sapienza di Roma nel 1968. Il Msi, il partito di cui fu segretario Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, forza chiave della strategia della tensione e manovalanza delle stragi. Il Msi, il partito del massacratore di partigiani e golpista Junio Valerio Borghese. Alla fine, non volendo né potendo entrare nel merito della questione, come sui vaccini, Meloni l’ha chiusa così: «Se gli italiani ci hanno votato, vuol dire che non considerano impresentabile quel passato ». Intestando così a tutti i suoi elettori la sua stessa apologia del Msi.