Ragazzi interrotti
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6 Maggio 2024
Si susseguono da settimane, nelle università americane (come in quelle di molte città europee), manifestazioni di protesta contro la guerra a Gaza e il massacro di decine di migliaia di civili provocato dall’intervento dell’esercito israeliano, seguito – non lo si ricorda mai abbastanza – alla strage di oltre un migliaio di israeliani, molti di loro civili, e al rapimento di centinaia di ostaggi da parte di Hamas il 7 ottobre dello scorso anno. Negli Stati Uniti, l’ondata di occupazioni dei campus universitari e gli sgomberi – al solito piuttosto rudi da parte della polizia, con manganellate e arresti – vengono sempre più spesso paragonati alle manifestazioni del 1968, quando gli studenti si ribellavano contro la guerra nel Vietnam e contro il razzismo.
Intanto i fatti. Sono oltre un centinaio le università private e pubbliche in cui si sono svolte – in un crescendo, negli ultimi giorni – manifestazioni da parte di una nutrita minoranza di studenti (certo, una minoranza, ma non per questo meno significativa). Le proteste sono state per lo più pacifiche, per quanto vociferanti. Gli studenti, tutti disarmati, hanno marciato, hanno creato piccole tendopoli nei campus delle università e, in alcuni casi, occupato edifici pubblici. Le università hanno quasi sempre reagito con un atteggiamento di chiusura, minacciando espulsioni e provvedimenti disciplinari e, quando non è bastato, chiamando la polizia per fare sgomberare gli accampamenti. All’Università della California a Los Angeles sono anche intervenuti alcuni gruppi di contromanifestanti nerboruti, che hanno picchiato gli studenti pro-Palestina. La polizia, in tenuta antisommossa, come appare da molti video in circolazione, ha usato manganelli, spray urticanti, cannoni ad acqua, e ha arrestato a oggi più di un migliaio di dimostranti.
Chi sono e cosa vogliono tutti questi giovani? Si tratta, nella stragrande maggioranza dei casi, di studenti che protestano contro la conduzione della guerra di Israele a Gaza e, al grido di “Palestina libera”, chiedono la fine dell’occupazione della Cisgiordania (che dura da più di sessant’anni) da parte di Israele. Gli studenti reclamano anche, dalle proprie università, il “disinvestimento” (divest) dei fondi messi nelle società americane che producono armi e aiutano militarmente lo Stato di Israele. L’accusa è rivolta particolarmente nei confronti della Caterpillar, che produce i bulldozer usati per demolire le case palestinesi, di Google che fornisce software di intelligenza artificiale all’esercito israeliano, e di Airbnb che pubblicizza, sul suo sito, le case dei “coloni” israeliani nei territori di Cisgiordania occupati illegalmente (e con la forza). Si tratta di investimenti probabilmente marginali rispetto al totale delle enormi somme a disposizione delle università (circa 850 miliardi di dollari), ma che hanno un valore simbolico per chi, come quegli studenti, considera inaccettabile quanto è avvenuto e continua ad avvenire a Gaza, e considera il proprio governo complice per il fatto che, pur non intervenendo direttamente, fornisce le armi – i carri armati, i missili, le bombe – con cui vengono uccisi decine di migliaia di palestinesi inermi (oltre a un numero imprecisato di combattenti di Hamas).
Si diceva: si tratta soprattutto di studenti, e non è escluso che tra questi siano presenti anche ragazzi (studenti o non studenti) arabi o palestinesi, e neppure che nelle manifestazioni possano esservi atti di antisemitismo, anche se la stampa ha riferito solo di pochissimi episodi in cui sono stati gridati slogan antisemiti, mentre non si registrano attacchi o proteste davanti alle rappresentanze diplomatiche di Israele o ai luoghi di culto ebraici. Molto significativo è invece il fatto che una parte consistente dei manifestanti sia costituita da rappresentanti di organizzazioni pacifiste ebree, come la Jewish Voice for Peace (i cui membri indossavano una maglietta con la scritta: “Not in Our Name”) e IfNotNow (“Se non ora quando”). Significativo, ma non sorprendente. Gli ebrei americani sono tradizionalmente progressisti (votano al 70% per i democratici) e anche se provano un quasi unanime attaccamento – peraltro pienamente giustificato – allo Stato di Israele, non hanno una posizione univoca nei confronti dei palestinesi e della guerra a Gaza. Una consistente minoranza di un terzo considera inaccettabile la risposta militare di Israele, percentuale che sale al 42% tra i giovani ebrei americani, tra i 18 e i 34 anni. Oltre la metà di loro (58%), ha un’opinione favorevole dei palestinesi (non di Hamas, che ha un’approvazione del 6%) e una negativa del governo israeliano. Due terzi degli ebrei americani, di tutte le fasce di età, chiedono che si mandino più aiuti alla popolazione di Gaza. Queste percentuali, già significative, aumentano considerevolmente tra gli ebrei che votano democratico. Non ci si può quindi stupire che una parte, per quanto minoritaria, degli ebrei americani appoggi o intervenga attivamente nelle manifestazioni odierne, nonostante le accuse (per lo più infondate) di venature antisemitiche.
E veniamo al punto politico della questione. La scorsa settimana il Congresso ha votato l’invio di aiuti militari, oltre che all’Ucraina e a Taiwan, anche a Israele. Una cinquantina tra deputati e senatori democratici – tra cui la ex speaker Nancy Pelosi e il leader della sinistra Bernie Sanders –, pur votando a favore, ha inviato una lettera al presidente Biden perché impedisca l’uso delle armi nei confronti di palestinesi inermi, appellandosi anche a una legge che vieterebbe l’esportazione di armamenti verso Paesi che non rispettano i diritti umani. Biden, per parte sua, ha avuto sulla guerra di Gaza una posizione oscillante, passando dall’iniziale adesione incondizionata all’azione militare di Israele, dopo il massacro del 7 ottobre, alla critica per i bombardamenti e le sofferenze cui viene sottoposto il popolo di Gaza. Ancora non si è pronunciato sulle manifestazioni degli studenti (dovrebbe farlo la settimana prossima, in una cerimonia di commemorazione dell’Olocausto), forse nella speranza che si esauriscano con la fine dell’anno accademico, tra poche settimane. Al contrario, il suo rivale nella corsa alla Casa Bianca, Donald Trump, non ha perso l’occasione per denunciare “l’anarchia provocata da elementi stranieri e agitatori infiltrati” e per applaudire le varie forze di polizia che riportano l’ordine nelle università “fatte per studiare e non per protestare”. Forse, come spera Biden, le proteste finiranno, almeno nel breve periodo; ma la minaccia alla sua campagna elettorale rimane. I giovani che manifestano oggi sono per lo più potenziali elettori democratici,e di qui a qualche mese il loro voto, in modo particolare negli swing States (gli Stati in bilico), potrebbe essere determinante per la sua rielezione. Come sessant’anni fa, ai tempi della guerra nel Vietnam, i giovani si sentono traditi da un establishment politico e da un presidente oscillante, che antepone la Realpolitik ai principi, e promette giustizia in patria ma la nega ai palestinesi oppressi. Non voteranno per questo per Donald Trump, ma potrebbero non andare a votare – e, se ciò avviene, basterà a far perdere Biden. Intanto, come nel 1968, ad agosto ci sarà la Convention democratica. Già si annunciano grandi proteste. Se così sarà, e se il Partito democratico reagirà nel modo ottuso di sessant’anni fa, la catastrofe è assicurata.