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di Vera Politkovskaja
Sono passati sedici anni dall’omicidio di mia madre, la giornalista Anna Politkovskaja. Mia madre è sempre stata vista come una persona scomoda non soltanto dalle autorità russe ma anche da quanti, tra le persone comuni, semplicemente aprono i giornali e leggono gli articoli. Perché la maggioranza della popolazione russa crede purtroppo a tutto quello che viene diffuso dagli schermi dei canali di Stato, un mondo virtuale creato dalla propaganda dove, tutto sommato, ogni cosa pare andare bene. Mentre i problemi che vengono segnalati periodicamente alla popolazione sono soltanto i problemi imputabili invece per gran parte ai Paesi occidentali o, come si usa dire in Russia con un sorrisetto, «all’Occidente in decomposizione».
Nei suoi articoli mia mamma non parlava mai di cose piacevoli; quasi sempre, il suo ruolo era quello di portatrice di cattive notizie. Diceva la verità, nuda e cruda, sui soldati, sui banditi, sulla gente comune finita nel tritacarne della guerra. Parlava di dolore, sangue, morte, corpi lacerati e destini infranti.
Ho cominciato a vivere con il pensiero che un giorno, prima o poi, mia madre avrebbe potuto non esserci più, molto tempo prima che venisse uccisa. «Vivere con il pensiero» non è però l’espressione più corretta. Meglio forse dire che, semplicemente, vivevo, come se la nostra famiglia fosse la più ordinaria del mondo, come se la vita che conducevamo fosse tra le più normali. E, in effetti, fino a un certo punto lo era, sebbene mia madre abbia sempre saputo che la sua sarebbe stata una fine violenta. Tuttavia, la guardava da una prospettiva puramente pratica, addirittura ci scherzava su e, comunque, ne parlava sempre con calma. Era una donna pragmatica, ed era spaventata dalla morte solo nella misura in cui l’avrebbe potuta cogliere all’improvviso, troppo presto, in un momento magari in cui noi, i suoi figli, non ci eravamo ancora «alzati in piedi», non ci eravamo ancora stabilizzati e sistemati nella vita. Con lei però non abbiamo mai parlato della sofferenza che può provocare la perdita dei propri cari, o del suo stesso possibile destino. Nessun discorso pomposo e lacrimoso, nessune mani torte, anche perché con lei sarebbe stato inutile: con lei, l’unica possibile linea d’azione era guardare a testa alta e dritto in faccia il proprio destino.
Eppure, nonostante tutto, non abbiamo potuto evitare l’effetto sorpresa, quando è successo: è stata uccisa nel momento in cui meno me l’aspettavo. Il fatto è che mia madre non si è mai nascosta da nessuno, non ha mai smesso di lavorare, di aiutare le persone; ha sempre considerato la sua morte possibile come il prezzo da pagare per la scelta di vita che aveva fatto e per il percorso professionale che stava percorrendo.
Mia madre non si è mai nascosta, non ha mai smesso di lavorare, di aiutare le persone. Ha considerato la sua morte possibile come il prezzo da pagare per la scelta di vita che aveva fatto
Il 7 ottobre 2006, il giorno in cui mia madre è stata uccisa, avevo ventisei anni e mi stavo preparando a diventare madre a mia volta. Fino a quel momento avevo voluto credere che la popolarità di Anna Politkovskaja in Occidente potesse in qualche modo proteggerla dagli eventuali rischi, da una morte violenta. Mi sbagliavo.
I dittatori hanno bisogno di sacrificare persone per consolidare il proprio potere. L’unico modo per proteggere la libertà è combattere la menzogna e dire la verità.
In Russia la libertà manca.
Ho deciso di scrivere questo libro per ricordare la lezione che mia madre ci ha lasciato: chiamare sempre tutti con il proprio nome, compresi i dittatori.