Sono quasi tutte al sud le regioni in forte difficoltà nel settore della sanità. E questo ben prima dell’approvazione della riforma sull’autonomia differenziata voluta dal governo Meloni. Una tendenza confermata dalla quotidiana migrazione dei residenti nel Mezzogiorno che preferiscono curarsi al nord. In Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.

Ma non mancano sorprese: secondo i dati disponibili, il saldo della mobilità sanitaria – gli spostamenti interregionali per farsi curare – riguarda anche regioni potenzialmente insospettabili, come il Lazio.

La cronaca, poi, racconta di strutture ospedaliere con poco personale, soprattutto nelle aree interne del Mezzogiorno, perché scarsamente attrattive per il personale sanitario. Medici e infermieri preferiscono considerare altri posti di lavoro.

EFFETTI NEGATIVI DELLA RIFORMA

In questo quadro di incertezza c’è un punto fermo: il disegno di legge firmato dal ministro Roberto Calderoli sarà un ulteriore smacco ai servizi sanitari del sud, nonostante non sia possibile formulare delle stime sull’impatto della riforma.

Il presidente della fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, in un intervento pubblico rilanciato dal Pd, ha sostenuto che sarà difficile capire come si muoverà «la mannaia dell’autonomia differenziata, senza definire e finanziare i livelli essenziali di prestazione». E allo stesso tempo ha sottolineato che la riforma è destinata «ad amplificare le disuguaglianze, legittimando normativamente il divario tra il nord e il sud del paese, violando il principio di uguaglianza nel diritto alla tutela della salute e assestando il colpo di grazia al sistema sanitario nazionale».

La Svimez ha lanciato un ulteriore avvertimento sulle conseguenze dell’autonomia sulla sanità: «Il finanziamento del Sistema sanitario nazionale non è la somma del costo dei Lea, ma è determinato a monte nella programmazione del bilancio pubblico, come è inevitabile per i vincoli di bilancio, e ripartito tra le regioni sulla base della dimensione della popolazione e della quota di anziani».

Quindi, sottolinea l’associazione, si tratta di «un metodo che non tiene conto dei fattori socioeconomici che impattano sui fabbisogni di cura e assistenza. E finisce per penalizzare i cittadini delle regioni meridionali, che soffrono di minori servizi di cura per quantità e qualità».

Una mappa utile a orientarsi è il monitoraggio 2021 – dato più recente a disposizione – dei Lea da parte del ministero della Salute. Il dossier traccia un quadro allarmante: sono 14 le regioni in regola e solo 3 nel Mezzogiorno, che subisce una condizione di acuta disparità.

Il giro di affari della mobilità sanitaria ammonta a 4,25 miliardi di euro con una crescita di oltre 1,2 miliardi di euro rispetto all’anno precedente, indice di un’offerta poco soddisfacente in molte regioni. Tutte del sud. Sono poi circa 800mila, ogni anno, le persone che si spostano dalla propria regione per curarsi; senza contare chi non ha la disponibilità economica per poterlo fare, rinunciando alle cure, escluso da ogni statistica.

L’Agenas ha annotato un altro dato: l’indice di “fuga” vede in testa il Molise (38,1 per cento), la Basilicata (34,6 per cento) e la Calabria (24 per cento). Non sfugge, tra gli elementi di impatto, che nel report molti cittadini campani si spostano a Roma per le cure pediatriche. Quasi un cittadino campano su tre, che sceglie di spostarsi nel Lazio, opta per il Bambino Gesù come struttura di riferimento.

GAP REGIONALE

Gli ultimi dati, messi a disposizione dalla Fondazione Gimbe, raccontano lo stato dell’arte. Tra le regioni del nord e quelle del sud c’è un ampio divario rispetto alle necessità. Nel 2021, le regioni con un importante saldo positivo (quanto costa lo spostamento dalle regioni) sulla mobilità sanitaria sono al nord. In testa spicca l’Emilia-Romagna (442 milioni di euro), seguita da Lombardia (271 milioni di euro) e Veneto (228 milioni di euro).

Di contro, con un saldo negativo superiore ai 100 milioni di euro ci sono esclusivamente le regioni al centro-sud. L’elenco è significativo: Abruzzo (-108 milioni di euro), Puglia (-131 milioni di euro), Lazio (- 140 milioni di euro), Sicilia (-177 milioni di euro), Campania (-221 milioni di euro), Calabria (-252 milioni di euro).

Un altro capitolo è quello delle specifiche richieste mediche che non incontrano adeguate risposte nelle regioni di appartenenza, nel caso del Mezzogiorno. Così l’86 per cento del valore degli spostamenti per le cure riguarda i ricoveri ordinari, i day hospital e le prestazioni specialistiche ambulatoriali.

Più ridotti gli altri numeri: il 9,4 per cento ricorre alla mobilità sanitaria per la somministrazione diretta di farmaci – quelli particolarmente difficili da reperire – e solo il rimanente 4,6 per cento si sposta per ricevere prestazioni particolari, tra cui cure termali, trasporti con ambulanza ed elisoccorso.

Per i ricoveri ordinari e in day hospital le strutture private hanno incassato circa 1,42 miliardi di euro, mentre quelle pubbliche poco più di 1,13 miliardi di euro. Per le prestazioni di specialistica ambulatoriale in mobilità, invece, il valore movimentato dal privato è di 301 milioni di euro, sullo stesso livello di quello erogato dal pubblico.

Negli anni i problemi sono diventati la norma. E qualcosa significa se, tra il 2010 e il 2020, in Italia sono stati chiusi 111 ospedali e 113 pronto soccorso, mentre sono stati tagliati 37mila posti letto e nelle strutture ospedaliere mancano all’appello ancora circa 29mila professionisti, di cui – secondo stime aggiornate – almeno 4.311 medici.

«Il punto nodale è il differenziale economico, ragione per la quale insistiamo sui Lep, da sempre. Non serve una laurea in matematica applicata, basta leggere i dati del Fondo sanitario che è inferiore di un terzo, a parità di popolazione, rispetto a una qualsiasi regione del nord», dice a Domani Toni Ricciardi, vicecapogruppo alla Camera del Pd. «C’è quindi un motivo», aggiunge il parlamentare «se, le regioni del nord, da sempre, si rifiutano di superare il criterio della spesa storica».