Donald Trump su un palcoscenico d’opera ancora ci mancava, anche se in effetti non ne sentivamo troppo il bisogno, dato che tracima già da ogni telegiornale e dicendo ogni volta il contrario del giorno prima. Eppure, eccolo qui: al Théâtre des Champs-Elysées di Parigi nel Robinson Crusoé, una pazzesca opéra-comique di Jacques Offenbach. A un certo punto, atto secondo, quadro secondo, appare un coro di «Guerriers, Femmes et Enfants sauvages» che circondano la bella, bionda e inglesissima Edwige, già fidanzata di Robinson venuta a cercarlo sull’isola deserta, la catturano, la drogano e decidono di sacrificarla al loro dio Saranha (non si può nemmeno dire che ai librettisti mancasse un Venerdì, perché naturalmente c’è pure lui, mezzosoprano en travesti). E qui, colpo di scena: i selvaggi sono i bravissimi artisti del coro accentus, così, senza maiuscola, e sono conciati tutti come Trump, abito blu elettrico, camicia bianca, cravatta rossa, occhiali da sole e cofana di capelli giallo stoppa.
Il pubblico esplode in un’ovazione prima ancora che aprano bocca, basta soltanto che compaiano: vieni avanti, Trumpino, e giù applausi. Del resto, ai francesi di regola gli americani non piacciono, men che meno quelli cafoni che mettono i dazi sullo champagne e, si capisce benissimo, sarebbero capaci di bere Coca-cola con il foie gras. E poi si sa che l’opera è ormai uno degli ultimi rifugi dei radical chic, se non addirittura della gauche caviar, ambienti dove mister President è popolare come madame Le Pen.
Il regista, Laurent Pelly, sposta l’opera nella nostra contemporaneità, anche per schivare ogni accusa di politicamente scorretto in un titolo del 1867 dove i selvaggi sono ancora tali e ne compaiono addirittura di cannibali. Costoro minacciano di mettere nel pentolone Toby e Suzanne, servitori di casa Crusoé partiti anche loro alla riscossa. In questo caso, si tratta di una specie di hamburgheria dove si sfornano piatti pronti (anzi, «plats cuisinés») usando come ingredienti corpi umani estratti da un enorme frigo, anche lui molto americano. La ricetta viene poi illustrata dal cuoco nella Chanson du Pot au feu, la canzone del bollito. Insomma, Trump a parte, si ride moltissimo, come sempre quando la coppia Minkowski-Pelly, rispettivamente direttore e regista, si dedica con questa grazia feroce al «Mozart degli Champs-Elisées», come Rossini chiamava Offenbach anche per esorcizzarlo (aveva fama di jettatore). Compagnia fantastica: la fatalona bionda presa di mira dai Trumpini è il delizioso soprano Julie Fuchs, che alla fine riuscirà a ripartire per Albione con l’amato Robinson (un tenorino malgascio nuovo e niente male, Sahy Ratia), «en trompant», ingannando, tutti i vari indigeni e anche dei pirati di passaggio. O forse «en trumpant»? In ogni caso, goduria ottima massima.







