Dopo la strage di Paderno e l’articolo di Michela Marzano
di Davide Prosperi
Gentile direttore, la consueta riapertura delle scuole è stata preceduta di pochi giorni dalla tragica vicenda del diciassettenne Riccardo, che ha ucciso fratello, madre e padre senza un’apparente ragione. Da quanto si sa, infatti, il ragazzo non ha indicato altro movente se non un malessere personale di cui voleva liberarsi. È un fatto che ha lasciato tutti attoniti, ma d’altra parte avvertiamo il bisogno di aiutarci a capire quale sia l’origine di questo malessere, pur consapevoli che essa rimane in fondo un mistero inattingibile. Per questo, ringraziandola per l’ospitalità, condivido qui alcune riflessioni sviluppate nel dialogo con alcuni educatori appartenenti al movimento di Comunione e Liberazione, nato 70 anni fa dall’iniziativa di un sacerdote – don Luigi Giussani – che ha abbandonato la carriera accademica proprio per dedicarsi alla formazione dei giovani.
Il nostro dolore per le vittime (e per il colpevole, che si trova ora davanti un’intera vita segnata da ciò che ha compiuto) si amplifica rivolgendo lo sguardo ai tanti giovani che avvertono un malessere simile e spesso lo comunicano in vari modi, ma altrettanto spesso lo nascondono dentro. In molti casi perché non trovano adulti con i quali metterlo in parole e condividerlo (quanta paura c’è negli adulti delle domande e dei travagli dei giovani!). Questo disagio assume così la forma di un vuoto interiore e di un isolamento radicale. Come ha scritto recentemente su queste pagine Michela Marzano (La Repubblica, 13 settembre), siamo precipitati «nel nuovo paradigma contemporaneo della crisi permanente», per il quale «chi oggi dice io non sa più chi è». Molte cose possono e devono essere dette sul piano psicologico, sociale e culturale, ma nessuna di esse potrà in ultima istanza “spiegare” quella strana inclinazione al male che troviamo al fondo di noi stessi e che la tradizione giudaico-cristiana chiama “peccato originale”. In noi vi è sempre aperta la possibilità di distruzione e di male: occorre riconoscerlo, se si vuole capire chi è davvero l’essere umano.
Rispetto al disagio di cui stiamo parlando, viene anzitutto da chiedersi se esso non trovi terreno fertile nella concezione in cui siamoimmersi di libertà come autonomia totale, che ha come unico orizzonte di compimento ammissibile la realizzazione dei propri sogni e progetti, spesso derivati da aspettative (molto confuse) imposte dalla società. Secondo questa visione l’altro non solo non ha alcun diritto di aiutarmi a capire chi sono ma tende a diventare addirittura un nemico. L’esito è drammatico, a qualunque età: forse non ci si isola fisicamente, ma si perde il senso dei legami, con il rischio di ritrovarsi annoiati o perfino depressi, sempre più vuoti e soli perché incapaci di riconoscere che il rapporto con l’altro ci definisce come persone.
In un simile contesto, ascoltare i giovani e prendere sul serio le loro domande è certamente importante, ma non basta. Occorre qualcuno che indichi una strada e la condivida con loro, come testimoniano i nonni di Riccardo, che non lo hanno abbandonato. Niente è più necessario di genitori e insegnanti che propongano ai giovani un’ipotesi di risposta a quel bisogno di senso che cerchiamo di mascherare in tanti modi ma che rimane un’aspirazione ineliminabile, sottesa a ogni nostro gesto. C’è da augurarsi che nelle nostre scuole venga favorita questa condivisione, in modo che ragazze e ragazzi possano verificarne la convenienza personale, e che queste proposte non vengano osteggiate in nome di una malintesa concezione della laicità. Su questo mi trovo a dover dissentire dalle conclusioni a cui giunge Marzano, che sembra voler escludere del tutto questa dinamica educativa.
Ciò che tutti desideriamo, più o meno consapevolmente, è qualcuno che ci ami e che riconosca il nostro valore, a prescindere dalle performance di cui siamo capaci. Di più ancora: abbiamo bisogno di qualcuno che ci liberi dal male, nostro e altrui. Ma esiste qualcuno così? Sembra impossibile. Eppure, nella storia c’è stato un momento in cui un uomo ha avuto la pretesa di incarnare tutto questo. Penso a quanto si racconta nel Vangelo a proposito di una donna samaritana: Gesù decise di fare la strada più ardua, attraverso il deserto, e di giungere al pozzo in un’ora del giorno alla quale nessuno vi andava, appositamente per parlare con lei. Quell’incontro segnò l’inizio di una vita nuova, la possibilità di uno sguardo colmo di speranza su di sé e sulla realtà: se Dio stesso si era scomodato per lei, allora il suo male era vinto, non aveva più l’ultima parola. Così è oggi anche per noi cristiani. Fragili e limitati come tutti, di fronte all’abisso inspiegabile del male non abbiamo da offrire al mondo nulla se non questo amore che riceviamo a nostra volta e un’amicizia come luogo dove farne esperienza.
L’autore è presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione