Nelle moschee, senza distruzioni
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22 Ottobre 2023Qui, nella Casa degli Omenoni, Manzoni ospitò la stravagante coppia d’alto affare e di coreografico «errore»: donna Prassede e don Ferrante; la prima metteva tutto «il suo studio» nell’assecondare «i voleri del cielo», facendo lo «sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello»; l’altro aveva fatto della sua biblioteca un cronicario per libri, un museo che era la falsa copia della cultura.
Fanno da stipiti all’ingresso della Casa degli Omenoni due cariatidi. Entrambe hanno le braccia incrociate sul petto e le mani sotto le ascelle. Nel romanzo di Manzoni la posa statuaria viene ripresa due volte (capitoli VII e XI), in prosa e in immagine. Annuncia pericolo o «errore». Dalla Casa degli Omenoni si dipartono nei Promessi sposi i segnali di allarme, come nelle antiche carte geografiche le iscrizioni hic sunt leones. Del resto lo stesso Renzo ha corso il rischio di essere linciato davanti al portone che fu dell’alloggio di Leone Leoni.
La Contrada Aretina nel 1814 sarà in buona parte il teatro dell’atroce sommossa popolare che portò all’assassinio di Giuseppe Prina, ministro delle Finanze del napoleonico Regno d’Italia. Manzoni dalle finestre di casa sua che danno sull’imboccatura di via degli Omenoni, sentì i berci dei carnefici. Ne parlò in una lettera. Non poté non vedere dalle finestre il branco imbestialito che correva verso il vicolo che porta alla Casa degli Omenoni, a Piazza San Fedele dove il Prina abitava, alla Case Rotte, a Piazza della Scala (l’itinerario, questo, della Via Crucis del povero Prina). Da quel corridoio erano sbucati in una vignetta dei Promessi sposi i «persecutori» che, davanti al palazzetto di Leone Leoni, avrebbero voluto aggredire Renzo. Manzoni spaventato si rannicchiò in un angolo con la famiglia. Rimase immobile e tremante. Si ricorderà dell’episodio quando nei Promessi sposi descriverà l’assalto della folla alla casa del Vicario di Provvisione durante la sommossa del pane. Nel Fermo e Lucia, sempre a proposito della sollevazione popolare del 1628, giustificò il diritto di un onest’uomo alla paura e all’inettitudine quando sulle strade esonda il terrore delle squadracce. Il brano venne silenziato nella riscrittura. A Manzoni rimordeva il ricordo della timorosa inazione, mentre sotto casa sua marciavano gli aguzzini del Prina, e Foscolo tentava disperatamente di persuaderli a non procedere e a disperdersi.
Alla fine, grazie alle illustrazioni narrativamente attive dentro I promessi sposi, Manzoni intervenne contro la storia; e, sulla viuzza della Casa degli Omenoni, là dove gli assassini erano accorsi, fece in modo che il Prina (in figura di Renzo) si salvasse a dispetto dei famelici leoni ringhianti di una ominosa insegna manieristica: aiutato (imponeva la mortificazione) non dagli onest’uomini, ma addirittura dai monatti.
Molti studiosi dei Promessi sposi insistono a cercare l’ubicazione della casa di don Ferrante sulle carte topografiche della Milano secentesca. Alla fine si accontentano di ripetere quanto asserito nelle guide tardottecentesche della città; e, con poche incertezze, collocano la casa in via Gesù, che è una laterale di via Monte Napoleone. Basterebbe che leggessero dentro le illustrazioni dell’edizione definitiva del romanzo, per accorgersi dell’abbaglio. Poco importerebbe tutto questo, se la soluzione del problema non fornisse una nuova chiave di lettura del romanzo.
Fu Manzoni a dettare le illustrazioni al disegnatore Gonin. È vero che la prima spinta alla loro realizzazione è da ricercare nell’intento di scoraggiare la pirateria editoriale. Ma va ricordato che Manzoni decise di essere coautore delle vignette. Gonin «scrisse» le illustrazioni sotto dettatura del Manzoni. Le vignette del romanzo sono (iconicamente) brani di «prosa» dell’autore. Contribuiscono al senso della narrazione. Lo sprezzo delle immagini è il peccato d’origine della filologia manzoniana. A lungo sulla lettura dei Promessi sposi ha pesato la decisione di cancellarle. Accadde questo a partire dalla prima edizione critica del romanzo curata da Michele Barbi, con l’assistenza di Fausto Ghisalberti. Il 2 gennaio del 1938, Giovanni Gentile, già ministro della Cultura, nella sua nuova veste di presidente del Centro nazionale di studi manzoniani, scrisse al Barbi di essersi «confermato» nella convinzione che un’edizione critica dei Promessi sposi non deve «trascurare un importante commento grafico del testo, quando, come nel nostro caso, tale commento sia stato voluto dall’autore e questi vi abbia collaborato». L’edizione del Barbi uscì nel 1942. Senza le illustrazioni. E da allora l’esclusione divenne una regola. Sempre del 1942 è la valorizzazione della «solerzia narrativa» della Storia della Colonna infame. Fu officiata da Giancarlo Vigorelli che però fece passare la Storia come una scheggia «distolta» dai Promessi sposi, ovvero come un «secondo romanzo breve». Ci sono voluti anni perché la «piccola storia» venisse riconsegnata al grande romanzo e riconosciuta come l’ultimo e inseparabile capitolo del capolavoro manzoniano. Eppure lo scrittore era stato avveduto. Aveva fatto stampare la parola «FINE» non dopo l’esito felice della vicenda di Renzo e Lucia, ma nell’ultima pagina della Storia della Colonna infame. E, nella «porta» grafica dell’ultimo capitolo, aveva ribadito l’unità dell’opera, riprendendo e correggendo, dall’«INTRODUZIONE», l’incipit dell’Anonimo secentesco.
L’Anonimo aveva scritto: «L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo»: la letteratura erige, orazianamente, monumenti imperituri. Uno «stampatore» può costruire «un monumento più autorevole e più durevole … di quello commesso a un architetto», dice da parte sua Manzoni all’inzio delle Storia della Colonna infame. Può. A patto che «tutti gli scrittori sensati veggiono di quanti mali sia cagione l’errore, e con un tacito accordo gli fanno la guerra». La Storia della Colonna infame ingaggia una «guerra» all’«errore» morale di un monumento: di una Colonna, di un processo. Una illustrazione mette subito in scena la verticalità orgogliosa della Colonna e l’epigrafe incisa e scandita sui tre massi che le fanno da aiola: «STORIA/ DELLA COLONNA/ INFAME». La qualificazione aggettivale è rilevata con la colorazione scura, ombrosa. I giudici, con la loro falsa giustizia penale applicata a dei capri espiatori, alle malprede o Valprede che dir si voglia, avevano montato un romanzaccio né vero né verisimile. Nella vignetta Manzoni marca malignamente, con una evidenziazione sarcastica, l’epigrafe sull’infamità. La distorce. Non si erano accorti, i giudici, che, senza volerlo, avevano finito per monumentalizzare la loro infamia.
Alla vignetta con la Colonna segue, nella pagina successiva, la testatina con la distruzione della casa di un untore e la dispersione di una famiglia. È il controcanto all’illustrazione sull’idillio di una famiglia, quella di Renzo e Lucia, con Agnese nonna che ninna la prima nipotina, nella vignetta ultima del capitolo XXXVIII delle disavventure dei due promessi sposi.
Alla lieta costruzione di una casa e di una famiglia, le illustrazioni contrappongono il dirupamento della casa di uno dei «padri di famiglia» che l’errata «sentenza», volutamente conseguita dai giudici per demagogico populismo, aveva definiti «infami»; e aveva lasciato che i figli degli innocenti colpiti dall’ignominia si ritrovassero «atrocemente orfani» e «legalmente spogliati». Questo contrappunto, raccontato per immagini, impone al lettore di tornare indietro nella lettura del romanzo per soffermarsi sulla penultima vignetta del capitolo XXXVI. Renzo e Lucia si sono ritrovati nel lazzaretto. Renzo ha perdonato il suo persecutore ucciso dalla peste. Fra Cristoforo consegna ai suoi protetti il pane del perdono. Dice, però, che a loro non servirà più. Dovranno farlo vedere ai loro figli che vivranno in un «tristo mondo , e in tristi tempi».Vivranno, i figli fortunati della coppia, gomito a gomito con i reietti buttati sulla strada, ingiustamente «spogliati» di una casa e di una famiglia. Ci vorrà molto perdono dall’una e dall’altra parte. Non si costruisce sull’odio sociale la convivenza civile.
Ci riporta all’«errore» l’ubicazione della casa di don Ferrante a Milano. Manzoni è reticente nella prosa. Ma esplicito nelle illustrazioni. Allinea tre vignette nel capitolo XXXIV ed esige che il lettore legga il loro racconto visivo. Renzo bussa alla porta di don Ferrante. Cerca Lucia. Due donne, una delle quali è una Furia, come l’infernale Aletto evocata all’inizio della Storia della Colonna infame, tira fuori gli «artigli» e urla «all’untore!». È emulata dall’altra «sgarbata». Si forma un plotoncino di esaltati. Renzo tira fuori un «coltellaccio» e scappa. Per salvarsi salta su un carro dei monatti, in uno spiazzo più avanti. Tutti questi eventi delimitano un’area che ha al centro la casa di don Ferrante ovvero, nella vignetta, la celebre e inequivocabile Casa degli Omenoni: «La Contrada … dicesi dell’Aretino, perché Leon Leoni Aretino vi dimorava il secolo passatto… essendo quella ch’espone entro la facciata … Colossi di vivo sasso», si legge nel Ritratto di Milano pubblicato nel 1674 dal canonico Carlo Torre.
Manzoni nell’illustrazione semplifica la facciata della casa. Ma, per aiutare il lettore a riconoscerla, fa scendere dall’alto della grondaia, e adagia sull’architrave del portone, il bassorilievo che è la divisa facilmente smorfiabile del proprietario primo: rappresenta infatti due leoni che sbranano un essere semiferino; due leoni, vale a dire Leone Leoni, che non risparmia i suoi avversari.
Leone Leoni era un celebre scultore e medaglista, che menava vanto della sua violenta propensione a delinquere. Era anche un collezionista d’opere d’arte. Era diventato popolare nella Milano del Seicento (come risulta dal Ritratto di Milano), per la sua gipsoteca: per la sua galleria di falsi, che esponeva copie in gesso di famose sculture.