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Ecco a Caracalla il pastiche di De Gregori e Zalone, un “feat.” non replicabile
Bizzarra
la vicenda del sodalizio tra Francesco De Gregori e Checco Zalone, nato fuoricampo, insomma in privato e casualmente, e poi attraverso chissà quali percorsi, approdato alla registrazione di un album quasi di nascosto, comunque al riparo da sguardi indiscreti, per evitare il rimbombo di tutti coloro che avrebbero avuto qualcosa da dire, ed è inevitabile che ci sarebbero stati. Infine celebrato, all’indomani dell’uscita dell’album primaverile che ha reso noto l’affare, con un paio di serate romane a Caracalla, una toccata e fuga, niente tournée, niente teatri, niente sodalizio certificato, quasi che la cosa non dovesse perdere la natura originale, generata appunto per caso, avvicinando due punti apparentemente lontani e collocandoli in una sfera dove il gioco però si rivelava sofisticato: come fare una cosa insieme, rispettandosi, rispondendosi, con una reciproca sorridente disposizione, sapendo fare il proprio assai bene, ma con la precisa intenzione di non strafare.
Si comincia con Checco solo, seduto al pianoforte, con un’overture di Morricone, una roba che sembra subito seria e un po’ spiazza, finché non derapa dentro al “Pianista di Piano Bar”, arriva Francesco e l’atmosfera si scioglie. Subito l’impressione è che i due conoscano a menadito il gioco delle parti, navigano per lo sconfinato palco di Caracalla come fosse un acquario e danno il tono giusto alla serata, che è “ci va di farlo e lo facciamo, è un sollazzo di passaggio, uno sfizio un po’ virtuosistico, vogliateci bene e divertitevi con noi”, sorridendo del fatto che “siamo come La Russa che pomicia con la Schlein” o come “Vannacci
che fa il trenino con Luxuria”. E giù risate, perché il pubblico è amorevole, ha voglia di godersi il pezzo unico e il giochino del “chi è più bravo tra noi due” con cui Zalone porta avanti lo show: “Voglio vedere se lo facevi con Umberto Smaila, se venivano lo stesso”, dice al compare. Nel succedersi di serio e faceto, arriva una versione de “Il cuoco di Salò” solo per voce di Francesco e piano di Checco, che fa il suo bell’effetto, suonata nella serata elettorale, con Zalone che nelle tante note che suona c’infila il refrain di “Bella Ciao”. Poi lo spettacolo si divarica: c’è il ramo di De Gregori, coi pezzi forti e alcuni ripescaggi del suo venerabile repertorio e allora Checco si eclissa, per poi tornare a fare le sue hit, puro vaudeville contemporaneo, assai sambato, “Culu Piattu”, “Bucchinu Rigatu”, “Angela”, “Battiato”, la sua rilettura della trap “Poco Ricco” destinata a mettere in discussione quell’apparente rivoluzione. Ma il bello è quando le sue canzoni le fanno in due, perché vedere De Gregori duettare su “Alejandro” o “La Prima Repubblica” è una primizia e il segno che il nuovo, bene o male, avanza sempre. Finisce in gloria tra le magnifiche rovine, mantenendo il gusto dell’improvvisata, perché in fondo lo spettacolo, come sottolinea De Gregori, si chiama “Pastiche”, ma solo per chi ha fatto il classico, per gli altri lo si può definire, puntualizza Checco, “a cazzo”.
Visto lo show è lampante che la cosa non poteva serializzarsi, perché allora si sarebbe trasformata da momento in modulo, da happening in ripetizione, e la formula De Gregori-Zalone non sembra nata per questo,
ma per lo sfizio di rompere gli schemi, trovare sponde inattese, provocare effetti imprevedibili. Nell’epoca in cui il “feat.”, il featuring, la collaborazione, o chiamatela come vi pare, è diventata un’abusata soluzione commerciale e il mutuo soccorso tra membri della stessa tribù, De Gregori-Zalone è un elemento di disturbo e un gesto di disubbidienza alle categorie prestabilite (guardiamoci bene dal chiamarlo “esperimento”, perché la definizione ci sta antipatica e qua si è sperimentato poco, soprattutto si è suonato insieme). Di fronte agli ammiccamenti contro il politicamente corretto di cui lo spettacolo è disseminato, ci piacerebbe invocare anche le categorie della diversità e della tolleranza, e allora perfino dell’inclusione tra artisti differenti. Ma la cosa innervosirebbe i protagonisti, del resto a ragione, perché ciò che hanno fatto non pretende catalogazione, ma orecchio. E in buona sostanza, per i fortunati che c’erano, sta tutto in quelle due notti “nella splendida cornice”, a rovistare tra canzoni proprie e altrui, di quel catalogo italiano nel quale Francesco e Checco nuotano come due delfini.