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Il tribunale del quartiere Basmanny di Mosca ha emesso la sua sentenza: la Novaya Gazeta deve essere distrutta. Naturalmente, la giudice Lipkina, che ha preso la decisione, non scriverà queste parole nella motivazione della sentenza. Troverà altre spiegazioni per giustificare (in maniera molto poco credibile, inevitabilmente) il desiderio di qualcuno di revocare la registrazione a un giornale che possiede una storia trentennale, e vanta due premi Nobel per la pace tra i fondatori: Mikhail Gorbaciov e Dmitry Muratov.
I crimini possiedono un termine di prescrizione. Perfino gli omicidi. Solo i crimini di guerra e i reati contro l’umanità non hanno una scadenza. E, da ieri, non va in prescrizione nemmeno il «reato» di non aver presentato al Comitato russo per la vigilanza un pezzo di carta, in un’epoca quando il suddetto comitato non esisteva nemmeno. Da allora sono trascorsi vent’anni, senza menzionare il fatto che gli impiegati del Comitato possiedono tutti i documenti necessari e non c’è alcuna violazione. L’abbiamo dimostrato in sede di tribunale. Ma i giudici russi si sentono degli esecutori degli ordini al servizio dello Zar, e conservano nelle loro cassaforti le scope e le teste di cane, i simboli degli «oprichniki», le guardie spietate di Ivan il Terribile.
Oggi è stato ucciso un giornale. Ai suoi dipendenti sono stati rubati trent’anni di vita. Ai suoi lettori è stato tolto il diritto a informarsi. Ma non solo. Oggi sono stati uccisi per la seconda volta i nostri colleghi giù uccisi da questo Stato per aver fatto il loro dovere. Igor Domnikov, Yuri Schekochikhin, Anna Politkovskaja, Stanislav Markelov, Anastasia Baburova, Natalya Estemirova, Orkhan Dzhemal.
Nello stesso giorno, un altro tribunale moscovita ha condannato Ivan Safronov, ex giornalista dei quotidiani Kommersant e Vedomosti specializzato in industria militare e aerospaziale, a 22 anni di carcere severo per «alto tradimento». Si tratta di una condanna terribile, pesantissima nonostante il Servizio federale di sicurezza russo (Fsb) non abbia presentato alcuna prova della colpevolezza del giornalista. Anzi, la testata Proekt ha pubblicato un’inchiesta che confronta i fatti di violazione del segreto di Stato che l’Fsb indica nell’atto d’accusa con i dati che si trovano in libero accesso: è bastata una ricerca in Internet per dimostrare che le accuse contro Safronov non reggono. Chiunque avrebbe potuto utilizzare le informazioni che lui aveva menzionano nei suoi articoli: erano accessibili a tutti. Inoltre, l’accusa non ha fornito alcuna prova dell’accesso del giornalista a informazioni segrete, meno che mai del fatto che le avesse passate a uno spionaggio estero, e che fosse stato pagato dai servizi segreti. L’atto d’accusa rappresenta la descrizione dell’intenso – e ottimo – lavoro giornalistico di Ivan Safronov, e delle operazioni illegali dell’Fsb che aveva iniziato a pedinarlo già nel 2014. In circostanze normali, questo caso avrebbe fatto scalpore e scandalo, il giornalista sarebbe stato scagionato con formula piena e quelli che l’hanno perseguitato violando la legge sarebbero stati puniti. Nella realtà in cui viviamo oggi, un tribunale condanna senza tentennamenti un innocente, e non possiamo mai sperare in una sentenza di innocenza. Basta vedere le statistiche della giustizia russa.
Nel corso dell’indagine Safronov e i suoi avvocati sono stati sottoposti a una pressione fortissima: il giornalista ha trascorso due anni nel carcere di Lefortovo senza poter vedere i familiari e senza poter nemmeno telefonare a sua madre, due suoi avvocati (Ivan Pavlov ed Evgeny Smirnov) sono stati costretti a lasciare la Russia dopo essere stati minacciati, il terzo, Dmitry Talantov, è finito a sua volta in prigione. Nonostante questo, Ivan Safronov non è sceso a patti con la coscienza e non ha firmato una «confessione», nonostante l’Fsb gli avesse offerto più volte di ammettere la colpa e di rivelare le sue fonti in cambio di una riduzione della pena. L’incredibile condanna a 22 anni è una vendetta, anche per la sua fermezza, per il rifiuto di collaborare.
È evidente che Safronov non è stato perseguitato perché colpevole di «alto tradimento» – un’accusa che non trova nessuna conferma – ma per il suo lavoro giornalistico, per gli articoli che ha pubblicato senza chiedere il permesso al ministero della Difesa e al governo russo. Noi chiediamo di liberare immediatamente Ivan Safronov, di rivedere il suo caso con tutti i materiali della difesa, di cambiare i giudici prevenuti e di parte, e di incriminare i magistrati che hanno violato le regole durante l’indagine. Chiediamo a tutti i giornalisti, e a chiunque non sia indifferente, di esigere dalle autorità di reagire a queste richieste. Ivan Safronov deve venire scagionato. Il giornalismo non è un crimine.
Per quanto riguarda la Novaya Gazeta, essa non ha bisogno delle vostre carte. È viva, vive e continuerà a vivere. E continuerà a vivere anche quando questo potere, questi giudici e questi impiegati non ci saranno più. Lo spirito libero respira come e dove vuole.