La scienza contemporanea, dalla teoria della Relatività a quella dei buchi bianchi che il fisico Carlo Rovelli sta presentando sui media in questi giorni, ci ha ormai abituati all’idea che il tempo sia una variabile dipendente dall’osservatore e dal movimento e non un’entità fissa e costante. E, sia pure in termini completamente diversi, già Agostino nella celebre pagina delle Confessioni aveva relativizzato la coscienza del tempo facendolo dipendere dalla nostra percezione e capacità di pensarlo. E fu sempre lui a definire nuovo perché lineare il tempo cristiano, teso verso un obiettivo di realizzazione finale, rispetto al tempo circolare degli antichi che tornava su se stesso. Siamo invece meno abituati a riflettere sulle variazioni che l’idea di Tempo ha assunto nella storia umana, e in particolare su cosa significava vivere in epoche, come il Medioevo, in cui la gente comune era priva di calendari e di orologi, ma le esigenze dell’agricoltura, della religione, della navigazione, della guerra e in generale della società richiedevano comunque una relativa precisione.
La data della festività che i cattolici celebrano oggi, ad esempio, è diversa ogni anno perché segue il calendario lunare ed è stata per secoli oggetto di dispute aspre e spesso durature, dalla Siria all’Irlanda, dai quattordecimani del III secolo al sinodo di Withby del 664, con esiti cristallizzati in posizioni identitarie, tanto è vero che quest’anno la religione ebraica festeggia la Pasqua il 5 aprile, i cattolici e i protestanti il 9, gli ortodossi il 16. Nel Medioevo l’individuazione e previsione a lungo termine di questa data, da cui dipendevano sia le feste religiose successive sia una catena di usi, procedure e pratiche civili, erano elaborate attraverso una complessa serie di calcoli rappresentati in tavole che armonizzavano il ciclo solare e quello lunare, talora simili a schede di Excel, talaltra splendidamente dipinte in sontuose miniature: i diagrammi del computo, inventato per conciliare in un complesso coerente orbite astronomiche, stagioni e cicli zodiacali con il calendario liturgico e la ricostruzione dei dati storici di interesse religioso. Per averne un’idea basterà dare un’occhiata alle magnifiche tavole miniate del codice di Oxford, St. John 17, consultabili su internet in esposizione permanente (https://digital.library.mcgill.ca/ms-17/). In età carolingia (789) il computo non solo diventò materia scolastica obbligatoria ma, come è stato scoperto solo pochi anni fa da Arno Borst, costituì un oggetto di discussione scientifica in commissioni «ministeriali» istituite da Carlo Magno per armonizzare metodi divergenti. È stato proprio Borst, scomparso nel 2007, a ricostruire la storia della parola computus, fondativa del pensiero occidentale, che ha portato sia al termine «computare» (e all’inglese «computer») sia a «contare» e «(rac)contare».
Nel 1972 lo storico russo Aron Gurevic in un celebre capitolo di Le categorie della cultura medievale (tr. it. Einaudi 1983, Bollati Boringhieri 2022) ricordava che «esistono pochi altri indici che caratterizzino l’essenza di una cultura quanto la concezione del tempo». E fu lui stesso a elaborare la divisione fra tempi naturali, tempi etnici, tempo biblico, tempo religioso e liturgico, tempo ciclico universale e tempo storico che tutti hanno adottato. Saggi di grandi nomi come Ariès, von den Steinen, Le Goff, Martin, Wolff e altri ne hanno affrontato aspetti specifici, quasi sempre riferiti ai secoli finali, cioè al Basso Medioevo. Ma ancora nel 2005 il sociologo francese Jean-Claude Schmitt definiva il tempo come «l’Impensato della storia» negli studi sul Medioevo e non solo: in effetti le concezioni del tempo e le loro manifestazioni, specie nell’alto medioevo, non hanno mai costituito l’oggetto specifico di una sintesi di ampiezza adeguata che coinvolgesse storia istituzionale ed economica, letteratura, archeologia, arte, musica, storia della religione e della liturgia, storia sociale. Lo conferma il fatto che anche il celebrato volume di Anthony Grafton e Daniel Rosenberg Cartografie del tempo, tradotto da Einaudi nel 2012, incredibilmente salta a piè pari o quasi proprio il Medioevo, cioè l’unico periodo in cui l’elaborazione del calendario diventa insieme una scienza, una fede e un’arte.
In realtà è forse solo con il citato Borst, nel primo decennio del 2000, che il tempo e le sue definizioni e misurazioni nel Medioevo sono diventati argomento centrale di ricerche di ampio respiro fondate non su intuizioni e campionature occasionali ma su una gigantesca base documentale relativa alla conoscenza astronomica, alla tecnica computistica (cioè calendariale) e ai suoi riflessi sociali e scientifici, compresi gli sviluppi meccanici di orologi ad acqua e di cronografi solari o anche notturni (orientati sulla stella computatrix), di cui è stata scoperta di recente una prima descrizione poetica nella Verona del IX secolo. E da poco sono stati pubblicati, nel Corpus Rhytmorum Musicum online, anche alcuni dei canti che a scuola aiutavano gli studenti a imparare le tecniche di misurazione del tempo e i ritmi dei mesi: le prime tracce di un filone popolare che arriverà a Folgore da San Gimignano e alla Canzone dei mesi di Francesco Guccini. Tutte queste acquisizioni non sono ancora divenute oggetto di riflessione comune, così come non è ancora penetrata nella coscienza diffusa l’innovativa idea di tempo come scansione ritmica introdotta in Les rythmes au Moyen Âge (Gallimard 2017, mai tradotto in italiano) proprio da Schmitt, che individua una catalogazione senaria dei ritmi sociali associandola ai sei giorni della creazione: ritmi nella musica e nella letteratura, ritmi della natura e del corpo umano, ritmi calendariali, ritmi processionali e itineranti, ritmi del racconto e del pensiero, e infine aritmie e divergenze.
Per fare luce su tutto questo la LXX Settimana di Studi sull’Alto Medioevo organizzata fra 13 e 19 aprile dal CISAM, che dal 1953 riunisce ogni anno a Spoleto i migliori esperti internazionali dei primi secoli medievali in comunità con giovani ricercatori e borsisti di ogni paese, è stata dedicata a Il tempo nell’alto medioevo coinvolgendo il più ampio raggio possibile di testimonianze, discipline e civiltà altomedievali. Aprirà giovedì 13 lo stesso Schmitt, per procedere poi all’esplorazione delle tecniche di misurazione del tempo, delle testimonianze sulla percezione del clima, proseguendo con la cristianizzazione dello Zodiaco, i tempi della guerra e della pace, i cicli nei monasteri e nei tribunali, i ritmi dell’alimentazione, l’armonizzazione di stagioni agricole e scansioni urbane, l’articolazione iterativa di scrittura e ornamentazione nei manoscritti, l’idea di tempo nella Bibbia e nelle narrazioni mitologiche dei popoli germanici e celtici, i tempi nella grammatica e nella musica, le personificazioni del tempo nell’arte e nelle monete, la terminologia del tempo nelle lingue dei popoli altomedievali, il tempo nei proverbi medievali, la proiezioni religiose sulla fine del tempo,
Sviluppando una tesi di Max Weber, lo storico dell’economia David Landes sosteneva che fu la realtà benedettina medievale, con la ferrea scansione delle ore monastiche, a porre le fondamenta della disciplina del tempo nell’occidente moderno. Ed è noto che erano le campane delle chiese rurali a scandire il ritmo della giornata agricola (come poi fu l’orologio meccanico delle torri a regolare i ritmi urbani). Ma è anche il suono della campana che, nel capolavoro di Goethe, salva Faust dal suicidio ricordandogli la dolcezza del paesaggio sonoro della sua infanzia.