Scrisse una volta Carlo Dionisotti che c’è un prima e un dopo Gianfranco Contini. A trentatre anni dalla scomparsa del grande filologo, mancato nella sua Domodossola il 1° febbraio del ’90 (quel giorno «il manifesto» titolò non per caso Il re Mida della critica l’eccezionale necrologio di Franco Fortini), l’impressione è, se non quella di un oscuramento, quella della parcellizzazione di un lascito, che va dalla più stretta ecdotica (un Contini appena ventisettenne editò le Rime dantesche per Einaudi) alla critica militante (non meno precoci, gli Esercizi di lettura sopra autori contemporanei che raccolse in volume nello stesso anno), dallo studio pionieristico delle varianti d’autore (il complessivo Varianti e altra linguistica uscì da Einaudi nel ’70) alla divulgazione scolastica (la più celebre e discussa delle sue antologie è La letteratura dell’Italia unita, Sansoni 1968), in una continua osmosi che si rende evidente nella monumentale edizione dei Poeti del Duecento (Ricciardi 1960), massimo esempio di imprenditoria letteraria, dove lo studioso cinquantenne chiama a collaborare giovanissimi fuoriclasse che, fra gli altri, rispondono ai nomi di Cesare Segre, Ezio Raimondi e D’Arco Silvio Avalle.

Da Dante a Croce
Non c’è ramo degli studi letterari in cui Contini non sia tuttora ricordato fra le auctoritates, ma si tratta per lo più di richiami di prammatica, metadisciplinari e comunque laterali al senso comune e al cosiddetto Canone, giusta la diffidenza di un maestro a Contini sempre vicinissimo, Giorgio Pasquali, che in Filologia e storia (1920) paventa l’inutilità di qualsiasi canone «perch’esso subirebbe la sorte di tutti i canoni, di essere allargato, ristretto, variato secondo i tempi e i gusti». Dunque è in controtendenza la nutrita antologia Una corsa all’avventura Saggi scelti 1932-1989 (Carocci, pp. 587, € 54,00) nell’ottima curatela di Uberto Motta, la cui introduzione corrisponde a una monografia vera e propria. Contiene ventisei testi, ognuno dei quali puntualmente prefato, disposti secondo criteri insieme cronologici, tipologici e tematici.

Vi sono compresi gli autori prediletti (Dante in primis con il saggio celeberrimo del ’58, Dante come personaggio-poeta della Commedia, con il contributo metodologico Filologia ed esegesi dantesca, del ‘65 e con la controversa attribuzione del Fiore, ‘70), né mancano gli esempi di una escursione saggistica che va dal saggio propriamente detto (Come lavorava l’Ariosto, 1937, programmatico per il critico variantista) al ritratto storico, e qui valga ad esempio e testimone di un rapporto mai reciso L’influenza culturale di Benedetto Croce (’66), fino agli interventi giornalistici dove risplende l’arte del necrologio (Pier Paolo Pasolini, Antonio Pizzuto, Raffaele Mattioli) o insomma i tombeaux che Pietro Gibellini raccolse nel ’91 con il titolo postumo di Amicizie.

E che fosse il presente a orientare per Contini lo sguardo sul passato, tanto da teorizzarlo a più riprese come prassi didattica, lo testimonia il fatto che i primi tre saggi antologizzati (e datati fra il ’32 e il ’34, quando Contini è un giovane appena laureato) riguardano Ungaretti, Montale e scilicet Carlo Emilio Gadda, colui che trent’anni dopo, nel saggio introduttivo alla Cognizione del dolore, vedrà al culmine della minoritaria «funzione Dante» (accumulo, plurilinguismo) che agisce sottotraccia nella nostra letteratura di contro alla maggioritaria «funzione Petrarca» (elezione, monolinguismo) il cui ultimo grido è proprio nell’opera di Giuseppe Ungaretti. E ciò a riprova – scrive Motta – di una «reversibilità sistematica di filologia romanza e critica militante».

Lo stesso, per tutt’altro ambito di studi, potrebbe dirsi di Roberto Longhi, suo venerato maestro e compagno di via che Motta ormeggia antologizzando Sul metodo di Roberto Longhi (’49) ma la cui incombenza tende a sfumare nelle pagine della sua introduzione. Resta il fatto, vistoso se guardato in retrospettiva, che Contini, fedele all’estetica di Croce (il suo programma era in effetti «essere postcrociano senza essere anticrociano»), ha saputo dare concreto spessore alla tesi secondo cui l’arte è intuizione lirica, vale a dire immediatezza di intuizione/espressione, utilizzando a tutto campo quegli ausili della filologia e della linguistica che Croce riteneva inessenziali e perciò strumentali se ancora nel dopoguerra i due si trovarono a polemizzare circa lo studio delle varianti d’autore.

Contini scrisse infatti un saggio polemico, La critica degli scartafacci, che però non raccolse mai in volume per rispetto del vecchio maestro (ora è con altri testi nelle Edizioni della Normale, 1992, a cura di Aurelio Roncaglia). In particolare, la nozione di lirica si traduce per Contini in un atto di conoscenza della realtà, in gnoseologia, come ribadisce in Una lettura su Michelangelo, del ‘39: «Ogni problema poetico è un problema di conoscenza. Ogni posizione stilistica, addirittura direi grammaticale, è una posizione gnoseologica».

Il romanzo, forma informe
Il limite di questa posizione è il limite stesso, sia detto ora per allora, della eredità di Contini, perché costui ha dato corpo e ha allargato fino ai limiti della capienza la nozione crociana di «lirica» ma non l’ha mai realmente superata: ed è un limite il suo che riguarda un’intera generazione con ben poche eccezioni (tra cui senza dubbio Giacomo Debenedetti o, perfettamente estraneo al crocianesimo, uno spiritualista come Carlo Bo).

E infatti la forma antilirica per eccellenza, la forma-romanzo, non è nelle corde di Contini, sebbene abbia firmato saggi straordinari non soltanto sul suo Gadda ma su Thomas Mann e sulle paperoles di Proust, letti tuttavia in verticale lirica: rimane eloquente il fatto che il libro vagheggiato sull’amatissimo Manzoni (ne raccoglie materiali la Antologia manzoniana, Sansoni 1989) si profili in vista del romanzo o intorno al romanzo ma non sul romanzo. Di questa renitenza alla forma-romanzo ha già detto Alfonso Berardinelli in un articolo del 2001; del resto le scelte della Letteratura dell’Italia unita già parlavano chiaro, escludendo Federico De Roberto e Elsa Morante mentre includevano i campioni di quella prosa d’arte che in Italia è, per l’appunto, un prezioso succedaneo della lirica.

Ciò nulla toglie alla grandezza di Gianfranco Contini ma, semmai, la storicizza alla pari della sua scrittura resa ardua dalla confluenza di infiniti apporti metalinguistici e però sempre sostenuta da una «filologia così strenua», scrisse Fortini nel suo necrologio, da vietargli «ogni compiacimento estetizzante». Del resto, Contini aveva ripetuto per tutta la vita di non conoscere critico letterario degno di questo nome (»sopportabile», aggiungeva) che non fosse fatalmente uno scrittore.