di Annalisa Cuzzocrea
Gustavo Zagrebelsky ha sulla scrivania un libro di Giorgio Agamben, Homo Sacer, aperto al capitolo Opus Dei. Archeologia dell’ufficio. L’appuntamento con il giurista, presidente emerito della Corte Costituzionale, era fissato per parlare degli attacchi di queste settimane alla giudice Iolanda Apostolico, accusata da pezzi di maggioranza e di governo di aver disapplicato con un’ordinanza il decreto Cutro per ragioni ideologiche, non in base alla legge.
Cosa c’entra l'”ufficium” con tutto questo?
«L’invenzione dell’ufficium ha un’importanza centrale nella cultura moderna: un atto, religioso o civile, vale (o non vale) indipendentemente dalle qualità personali di chi lo compie. Il prete, per quanto miscredente o corrotto sia, celebra validamente i misteri della fede se rispetta le norme della liturgia. Un giudice decide validamente, che sia amico o nemico d’una parte in causa, se la sentenza è esente da vizi, cioè da violazioni della legge. Dove condurrebbe l’esame della vita privata se si volesse trarne conseguenze sulla validità degli atti compiuti? Il mescolamento del pubblico e del privato travolgerebbe tutto, non solo nella sfera della giustizia».
Hanno tirato fuori un video di cinque anni fa che mostra la magistrata a una manifestazione sul molo di Catania durante il blocco illecito della nave italiana Diciotti, con a bordo 137 migranti. Adesso l’attaccano perché il figlio è stato denunciato durante una manifestazione. Secondo lei tutto questo ha un intento intimidatorio?
«Sembra evidente. Questi attacchi personali non riguardano direttamente il provvedimento, che avrà una storia a sé e si vedrà. Riguarda piuttosto la tranquillità, la serenità di questo e di qualunque altro giudice in decisioni “sensibili” per gli interessi del governo. Servono a dire: tu magistrato magari anni fa hai fatto qualche cosa di cui potresti vergognarti. Attento, perché posso tirarla fuori».
L’accusa è di aver partecipato a una manifestazione di carattere politico, contro un atto governativo. La massima più ripetuta in queste ore è che il giudice deve non solo essere, ma apparire neutrale.
«Sì, è un argomento molto spesso ripetuto e ha, dalla sua, tra altre, l’autorità d’un Piero Calamandrei. Essere e apparire: che groviglio! Si può essere indipendenti e non sembrare, e si può sembrare indipendenti e non esserlo. La massima che lei ha ricordato, se non proprio una sciocchezza, mi pare un’ipocrisia. Aggiungo: c’è una componente autoritaria nel valorizzare l’apparenza. L’apparenza coincide con il “prestigio” esteriore, formale. Nel campo della giustizia la protezione di questo “prestigio” di facciata è molto presente».
Ci spiega meglio?
«Poiché i giudici non sono “esseri inanimati”, pure e semplici “bocche della legge”, come voleva Montesquieu – su questo siamo tutti d’accordo, non è vero? – e dunque hanno le loro idee, i loro orientamenti, le loro preferenze, davvero è buona cosa che tutto ciò resti nell’ombra? Non è forse vero il contrario? Mi permetta di osare un’autocitazione da uno scritto di cinquant’anni fa, cioè di un tempo non sospetto. Riguarda la “responsabilità disciplinare” dei magistrati ed è pubblicato nella Rivista di diritto processuale. Vi è espressa un’idea che oggi mi pare di approvare, forse con maggiore convinzione di allora. Le tendenze alla “messa in riga” (la Gleichshaltung, così si diceva nella Germania degli Anni ’30: si può vedere con Google) sono più chiare oggi di allora. Proprio la vicenda da cui siamo partiti mi sembra eloquente».
Ma quindi, nel 1975, cosa scriveva?
«Che a chi fa parte dell’ordine giudiziario sono riconosciuti i diritti costituzionali come agli altri cittadini. Solo l’iscrizione a un partito politico può essere vietata, ma non perché renderebbe trasparenti le idee del giudice, bensì perché implicherebbe una disciplina incompatibile con l’indipendenza del magistrato. Ma da questo non si può trarre motivo per inibire ai magistrati altre forme di esercizio dei loro diritti».
Non crede che al magistrato di cui si conoscono gli orientamenti, le “visioni del mondo”, sia preferibile il magistrato anonimo, di cui non si sa nulla?
«C’è differenza tra un magistrato grigio, opaco, e un magistrato neutrale. Non c’è bisogno di avere una grande esperienza nel mondo giudiziario per temere molto più certi magistrati che non quelli di cui si conoscono le idee».
Perché?
«I grigi, gli opachi, gli scialbi sono spesso i più proni. Si possono nascondere. Non è forse vero che il conformismo è spesso l’anticamera della corruttibilità?».
E gli altri?
«Gli altri stanno attenti due volte di più a dimostrare nelle loro pronunce l’assenza di preconcetti. Se hai il senso dell’ufficium, ti comporti così. Sai, comunque, che i tuoi provvedimenti saranno guardati con la lente d’ingrandimento. Invece, se sei disposto a vendere una sentenza ai potenti di turno, starai quatto quatto. Proprio chi è esposto sa di dover essere più scrupoloso».
Non è d’accordo con i magistrati che dicono: io, però, non lo avrei fatto?
«Guardi: le occasioni in cui si potrebbe dire al magistrato: hai fatto questo, dunque non puoi occuparti di quest’altro o, se te ne occupi, sei sospetto, sono infinite. Supponiamo ch’io partecipi a un gay pride, perché sono gay, per solidarietà o per curiosità. S e io fossi quel magistrato, seguendo il ragionamento-Apostolico, non potrei giudicare in tutte le questioni di omosessualità. Capisce dove si andrebbe a finire: il giudice rintanato, chiuso nella famigerata “torre d’avorio” che tutti deprecano».
E il mistero del video che esce chissà come dopo cinque anni?
«Questo è forse ciò che dovrebbe preoccupare, al di là del fatto che si sia trattato d’un magistrato. Un momento di vita personale, sia pure in pubblico, è “tracciato” e memorizzato per essere messo a disposizione di colui o di coloro che al momento buono vogliono usarlo contro un avversario. Questa faccenda mi ha fatto venire in mente la fine della democrazia ateniese. O meglio, la fine dell’epoca d’oro periclea. Un momento storico in cui pullulavano, quasi come professionisti, figure come i sicofanti. Cioè i ficcanaso, i delatori, gli informatori, i calunniatori, in una parola: le spie».
Che cosa facevano?
«Raccoglievano notizie e le mettevano a disposizione degli accusatori pubblici quando occorreva. Quando si trattava di condannare qualcuno a morte o all’ostracismo si chiamavano i sicofanti per ottenere i loro pacchetti di informazioni».
È convinto stia accadendo qualcosa del genere?
«È qualcosa di inquietante. Non è questione di privacy, ma di libertà tout court. Nelle società libere chiunque può, entro la legalità, fare quello che vuole, nella sicurezza che ciò che fa non diventi ricatto. La cosa più grave non riguarda chi ha fatto le riprese, ma chi le ha chieste sapendo dove e a chi chiederle».
Non è assurdo in un sistema democratico?
«È roba da verminaio politico, un metodo violento, uno scandalo. Altro che strumento politico».
Le dico come le risponderebbero: abbiamo il diritto di criticare le sentenze della giudice, proprio in virtù della separazione dei poteri.
«Certo: criticare le sentenze. Il resto è verminaio».
Torniamo un attimo al merito del provvedimento. Disapplicare una norma italiana perché confligge con una norma europea è frequente o dovrebbe essere un’ultima ratio?
«Quel provvedimento può essere condensato in tre righe: il trattenimento del migrante può avere luogo solo ove necessario sulla base di una valutazione caso per caso, salvo che non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive. Questa formula che si trova nel provvedimento di Catania è la riproposizione, parola per parola, di una direttiva europea in vigore».
Quindi?
«Quindi ciò che dice la giudice in punto di diritto non è certo una sua invenzione. È la trascrizione di una norma europea che non può essere contraddetta da un Paese-membro».
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano dice: «Compete alle Corti esprimersi “in nome” del popolo italiano, non “in vece” del popolo italiano. Il parametro per il giudice non è la condivisione dei contenuti della norma che è chiamato ad applicare. Non può esistere una verifica diffusa della conformità delle leggi alla normativa europea».
«Mi dispiace per chi la pensa così, ma non solo può, ma deve esserci. Di fronte a un contrasto tra legge italiana e diritto europeo, si possono fare tre cose. Se c’è un dubbio, ci si rivolge alla Corte Costituzionale o alla Corte di giustizia europea. Se invece il contrasto è chiaro, il giudice deve disapplicare la legge nazionale. È la primauté, la supremazia del diritto europeo. Se la decisione arriverà alla Corte di Cassazione questa, in caso di dubbio, potrà rivolgersi alla Corte del Lussemburgo per avere chiarimenti».
Tutto questo lede la separazione dei poteri?
«Oggi le cose, dal tempo di Montesquieu, sono cambiate. I poteri sono di fatto due. All’uno fa capo la politica, all’altro il diritto. Come i giudici non possono dire a un membro del governo: devi dimetterti perché non mi piaci, così non può dire, al contrario, un esponente politico a un giudice. Ci sono regole oggettive che proteggono gli uni dagli altri. Nessun organismo naturale, però, può reggersi su due gambe che vadano ognuna per conto proprio. I conflitti devono risolversi. Come? Nello stato di diritto, a differenza dagli stati autoritari, prevale la legge. La politica deve adeguarsi. A meno che quest’ultima, come ultima ratio, non cambi la legge o, addirittura, la Costituzione. Potrebbe farlo ma sarebbe una pericolosa rottura della legalità».
Cos’ha pensato dell’idea di una cauzione di 4.938 euro per consentire a un migrante di non andare in un Cpr?
«Mi è girata la testa, incredulo. L’esempio sono gli Stati Uniti dove, pagando una cauzione, eviti la galera? Ma noi abbiamo una civiltà giuridica molto diversa. Là, ad esempio, c’è la pena di morte. Un buon motivo per noi di fare lo stesso? La cauzione per evitare il Cpr è la confessione, ove ce ne fosse bisogno, che quei centri di raccolta per migranti sono carceri».