Un dispiegamento di 200 agenti della guardia di finanza. Una cosa che non si vedeva dai tempi dell’inchiesta sulle tangenti per il Mose. E la storia si ripete. Venezia, 4 giugno 2014. Venezia, 16 luglio 2024.

A dieci anni esatti da quello scandalo, Venezia è alla prese con un altro capitolo giudiziario: corruzione, riciclaggio e falsa fatturazione. L’inchiesta del nucleo di polizia economico finanziaria della guardia di finanza lagunare, vede coinvolte 18 persone tra funzionari pubblici, imprenditori, amministratori.

Indagato il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro. E il suo assessore alla Mobilità, Renato Boraso, che da ieri è finito in carcere. Lui è quello che in occasione della strage del bus di Mestre: aveva detto: «Il buco sul guardrail? Un varco di servizio». L’indagine è partita da un esposto in procura presentato alcuni mesi più tardi, dunque, degli articoli pubblicati su Domani che rivelavano una serie di conflitti di interesse in capo al primo cittadino Brugnaro.

L’attività investigativa è stata tenuta blindata per oltre due anni e mezzo per i dovuti accertamenti.

«Sono esterrefatto», è stata la prima reazione di Brugnaro dopo aver ricevuto l’avviso dell’indagine a suo carico, «in cuor mio ed in coscienza, so di aver sempre svolto e di continuare a svolgere l’incarico di Sindaco come un servizio alla comunità, gratuitamente, anteponendo sempre gli interessi pubblici».

Ma perché Brugnaro è indagato? Per spiegarlo dobbiamo fare un salto temporale nel lontano 2006, quando, spiegano fonti investigative a Domani, «Brugnaro compra dei terreni in un’area vicina a Porto Marghera». Li compra per 5 milioni di euro e l’area è quella di “Pili”, una zona di laguna fortemente inquinata. «Nel 2016, 2017, quando Brugnaro era già sindaco – ci spiegano – si fa avanti un imprenditore di Singapore, interessato a fare un investimento importante su Venezia. Brugnaro avrebbe voluto vendere quei terreni. Per incentivarli servivano una tubatura e un piano urbanistico adeguato. Ma lui era sindaco, e in quel momento agiva da privato». In sostanza Brugnaro avrebbe voluto apportare delle modifiche al regolamento urbanistico ma per curare un proprio interesse personale, più che da primo cittadino, è l’ipotesi di chi indaga.

Modifiche che poi non avvennero perché «era venuto meno l’accordo iniziale con l’imprenditore di Singapore». Questi terreni sarebbero del blind trust, il fondo che gestisce il patrimonio del sindaco di Venezia da quando Brugnaro è stato eletto al Municipio. La procura, ora, gli ha inviato un avviso di garanzia e proprio sui meccanismi del blind trust sta indagando la guardia di finanza.

Indagati anche il capo di gabinetto del sindaco Morris Ceron e il vicecapo di gabinetto Derek Donadini. Brugnaro, Ceron e Donadini, si legge nel decreto di perquisizione, «concordavano con Ching – imprenditore della società che puntava a rilevare l’area dei “Pili” – il versamento di un prezzo di 150 milioni di euro in cambio della promessa di far approvare, grazie al loro ruolo all’interno dell’ente comunale, il raddoppio dell’indice di edificabilità sui terreni in questione e l’adozione di tutte le varianti urbanistiche che si sarebbero rese necessarie per l’approvazione del progetto edilizio ad uso anche commerciale e residenziale».

In sostanza quindi il primo cittadino avrebbe voluto vendere i terreni promettendo le varianti urbanistiche necessarie a renderli edificabili, e per facilitare la vendita avrebbe svenduto il palazzo storico.

Per l’assessore Boraso invece, il sospetto degli investigatori è che con discreta sistematicità quando c’era un privato che voleva concorrere in un appalto, lui si faceva parte in causa per fare delle agevolazioni. La tesi insomma è che avesse aveva una specie di pacchetto da offrire all’interessato che derivava dalle sue funzioni pubbliche: per esempio, garantiva modifiche urbanistiche e al bando di un contratto per un appalto pubblico. Lui , sospettano i detective, poi riscuoteva i soldi, emettendo delle fatture di consulenza: tecnicamente, però, le fatture erano false, cioè chi indaga crede che queste fossero le cosiddette tangenti insomma.

L’indagine ha spiegato il procuratore Bruno Cherchi, ha mostrato «gravi indizi relativamente alla messa a disposizione dell’assessore Boraso per interessi personali, con riscossione di denaro attraverso emissione di fatture per operazioni inesistenti, coperte in linea di massima con attività di consulenza».

Tale condotta sarebbe avvenuta “con continuità” e per anni, almeno tra il 2023 e il 2024. Inoltre Boraso «stava cercando di eliminare documentazione che poteva essere usata contro di lui», ha aggiunto il procuratore.

Molti imprenditori sapevano, tuttavia non tutti si sono comportati allo stesso modo, spiegano fonti vicini all’indagine.

Da ieri Boraso è rinchiuso al carcere Due Palazzi di Padova. Si «applica la misura della custodia cautelare in carcere – è scritto nelle carte – in ordine ai capi (…), limitatamente alle fatture emesse dal 2020 al 2023».

Ma dai documenti ottenuti da Domani, risultano bonifici anche precedenti, nel 2017. Un giro che potrebbe far pensare a un vero e proprio “sistema”.

Oltre a alla cattura di Renato Boraso è finito in carcere anche l’imprenditore edile Fabrizio Ormenese. Altri sette imprenditori sono ai domiciliari. E per questo filone di indagine sono stati eseguiti sequestri preventivi per circa 2 milioni di euro.

Indagato anche il direttore generale di Avm/Actv (La società di trasporti del comune di Venezia) Giovanni Seno.

«Per la prima volta nella storia di Venezia – dice il consigliere Marco Gasparinetti – a essere indagati sono anche i vertici della macchina comunale, quelli che dovrebbero essere garanzia di imparzialità per i cittadini».

Più netto il partito democratico con Monica Sambo, Matteo Bellomo e Andrea Martella, che ha chiesto le dimissioni: «Per il bene di Venezia e dei suoi cittadini, il sindaco e la sua maggioranza dovrebbero assumersi appieno la responsabilità politica di compiere un passo indietro».