Sono trascorsi due decenni dalla morte Eppure l’impronta di Gianni Agnelli è più viva e più forte che mai. Come ci racconta l’ex premier e commissario Ue che lo conosceva bene
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«Gianni Agnelli era un cosmopolita anomalo perché assai popolare in patria e contribuì a far crescere l’Italia, evitandole di cadere nei precipizi che di tanto in tanto si costruisce da sola». Così Mario Monti, ex presidente del Consiglio, ricorda l’Avvocato nel ventennale della sua scomparsa, scegliendo di mettere l’accento sul «ruolo svolto in innumerevoli occasioni per migliorare la reputazione, accrescere il ruolo del nostro Paese in Europa e nel mondo». Ricostruendo il ruolo che ebbe Agnelli, durante il governo Prodi, nel favorire una entrata da subito nell’Eurozona, contrastando chi invece era per un approccio più attendista.
Quando è stato il suo primo incontro con Agnelli?
«Avvenne a sorpresa. “Professor Monti, l’Avv. Agnelli vorrebbe conoscerla, siamo qui alla prima fila”. Questo biglietto mi venne recapitato da un commesso in un auditorium torinese affollato, durante una conferenza nel 1977. Insegnavo in quegli anni a Torino e mi era già capitato di incontrare Umberto Agnelli e Cesare Romiti, il mittente di quel biglietto.
Per un professorino trentacinquenne, pur non del tutto ignaro di mondo, fu un tuffo al cuore. Dovevo essere rosso in volto, ma quel primo scambio di poche parole non deve essere stato proprio disastroso. In altri sporadici incontri in quel periodo, l’Avvocato manifestò nei miei confronti una certa curiosità, la vera molla del suo interesse per questa o quella persona».
Iniziò così un rapporto che sarebbe durato 25 anni…
«Per un quarto di secolo ebbi con lui rapporti abbastanza frequenti, nei contesti più diversi. Ben conscio di quanto avrei potuto apprendere anche solo vedendolo in azione e ancor più interagendo con lui in qualche occasione, ma avendo sempre tenuto molto alla mia indipendenza di pensiero, gestii con cura – da minuscolo pianeta – i momenti di vicinanza a quel sole. Un sole irresistibile per fascino ma proprio per questo, ho sempre pensato, tale da soverchiare involontariamente l’interlocutore e da causargli magari qualche scottatura. Devo però riconoscere che nei rapporti con me l’Avvocato, generoso di attenzioni e di proposte interessanti, si è sempre dimostrato lui stesso molto sensibile al desiderio di indipendenza che percepiva in me, senza alcun risentimento se a volte non mi sentivo di accogliere alcune idee o proposte. Di questa sua delicatezza, che ha contribuito a dare solidità e schiettezza ai nostri rapporti, gli sono particolarmente grato».
Cosa l’ha più segnata nell’amicizia con Agnelli?
«Ha avuto una forte influenza, forse senza saperlo, sulla mia formazione. In particolare, sul modo in cui un italiano possa sentirsi profondamente tale e allo stesso tempo capire l’Europa, capire il mondo, farsi apprezzare come persona e come italiano. E mettere questo bagaglio, che si costruisce lentamente, a disposizione del proprio Paese, per contribuire a farlo crescere e, all’occorrenza, difenderlo ed evitare che cada nei precipizi che, di tanto in tanto,l’Italia si costruisce da sé».
Agnelli, dunque, come esempio di italiano al servizio del proprio Paese sul palcoscenico globale…
«Agnelli ha fatto questo ad un livello senza pari, per un’intera vita, su scala planetaria. Ma a molti italiani, nei campi più diversi – dalle scienze e dalle arti al business, dalle attività umanitarie alla politica – capita quotidianamente, o in certe fasi della propria vita, di dover tenere alta, o rialzare, la “quotazione” dell’aggettivo “italiano”, di dover migliorare i vari ranking o rating che comparano il nostro con altri Paesi. In certi momenti anch’io mi sono trovato ad essere partecipe di questo sforzo collettivo. A volte questo è avvenuto avendo Agnelli al fianco come è anche avvenuto con il suo erede John Elkann, che ricordo protagonista all’incontro di Sun Valley nel luglio del 2012 quando da Primo Ministro venni invitato a spiegare come l’Italia stava superando la crisi finanziaria davanti ad un selezionato gruppo di leader americani».
Che cosa è che fa la differenza, quando ci si trova a rappresentare il Paese in situazioni molto competitive?
«Avere l’orgoglio del nostro Paese, se possibile non solo perché ci è capitato di essere italiani, ma fondandoci sugli effettivi meriti che l’Italia e gli italiani hanno acquisito, sui progressi che facciamo e che sempre più faremo. Difendere l’Italia da critiche e attacchi, ma cercando di cogliere se in alcuni di essi non vi sia, accanto a tanti pregiudizi, qualche briciola di verità. Non avere complessi di persecuzione verso gli stranieri, cominciando con lo smettere noi di autoflagellarci per principio, come facciamo ogni volta che, di fronte a qualcosa che non va, usiamo l’espressione “all’italiana”. Non mi risulta che altri popoli abbiano questa abitudine».
Che tipo di cosmopolita era Gianni Agnelli?
«Non ho mai visto, e credo che non ci sia mai stato, un italiano come lui considerato dalle élite di tutto il mondo come “uno di loro”, ben diverso dagli “italiani”. E al tempo stesso considerato da noi italiani, soprattutto dei ceti più modesti, come “uno di noi”, sia pure appartenente alla stratosfera. Anche quando, in periodi di violento conflitto sociale, veniva additato come il più potente dei “padroni”, il patron della Juventus e della Ferrari, l’uomo dalla battuta fulminante, deteneva le chiavi del cuore degli italiani. Gianni Agnelli è stato un cosmopolita insolito perché rimasto sempre assai popolare in patria».
Cosa avrebbe detto sulla crisi della globalizzazione?
«Gli è stata risparmiata l’entrata in crisi della globalizzazione. Scomparso nel gennaio 2003, ha potuto vedere, con apprensione, solo i suoi primi scricchiolii, cioè i disordini al WTO di Seattle a fine 1999. Nella globalizzazione vedeva “grandi sfide, grandi opportunità: il dialogo tra le civiltà mondiali”, come il senatore a vita spiegò nel gennaio 2002 in una conferenza tenuta nella Sala Zuccari del Senato».
A legarvi c’era comunque, anzitutto, l’idea di un’Italia protagonista in Europa…
«Nel 1996 volle ristampare il libro
Federazione europea o Lega delle nazioni? scritto nel 1918 dal nonno Giovanni Agnelli con l’economista Attilio Cabiati. Chiese a me, allora Commissario europeo, di scrivere l’introduzione alla nuova edizione. Il volumetto venne presentato al Lingotto, con l’intervento, tra gli altri, di Jacques Delors, che l’anno prima aveva completato il suo fecondo mandato diPresidente della Commissione. Fu uno dei tanti momenti in cui emerse con chiarezza la comune visione di un’Italia protagonista in Europa».
Che ruolo ebbe l’Avvocato nella scelta italiana di aderire alla Moneta unica europea?
«Era il giugno 1996. Governo Prodi, con Ciampi ministro dell’Economia. Esplose un vivace dibattito pubblico sulla questione se l’Italia dovesse puntare o no a far parte dell’euro fin dall’inizio. La posizione del governo, inizialmente, era più attendista. Attaccai questa posizione. Romiti prese posizione a favore dell’ingresso più graduale, che pure era una tesi sostenibile, ma secondo me pericolosa sul piano economico e politico. Agnelli scese in campo, a mio favore e contro la posizione di Romiti. Dopo l’estate, una manovra aggiuntiva varata da Prodi e Ciampi, permise al governo di non superare nel 1997 il 3% di disavanzo, qualificando perciò l’Italia ad entrare con il gruppo di testa».
Un disaccordo fra voi?
«Voleva che passassi dal Corriere della Seraalla Stampa. Mi invitò a pranzo a Torino, con l’allora direttore, Scardocchia. Fui molto lusingato ma gli spiegai che per me ilCorriere, con cui collaboravo dalla metà degli anni Settanta, era la mia casa, come la Bocconi. Alla fine, gli dissi: “Avvocato, mi dispiace proprio, ma devo deluderla. Ma facciamo una cosa: io resto alCorriere e aspetto che ci venga anche lei!”. Il che avvenne qualche tempo dopo, quando lo acquistò».
L’ultima volta che vi siete visti?
«Andai a trovarlo a Torino nel novembre 2002. Mi erano giunti segnali sul precipitare delle sue condizioni di salute e sulla sua disponibilità, forse desiderio, di incontrarmi, senza alcun tema specifico. Partii subito da Bruxelles, dove allora lavoravo. Mi ricevette a casa, in vestaglia, nella sua camera. Parlammo a lungo. L’impazienza che lo aveva sempre caratterizzato, l’esigenza di volare subito, come una libellula, su un nuovo argomento dopo essersi posato non più di qualche istante sul precedente, non l’aveva più. Lo sguardo era quello di sempre, guizzante e proiettato nel futuro. La voce no, era pacata, meno espressiva di un tempo, più dolce. Poteva essere il nostro ultimo incontro. E lo fu. Mi colpì in particolare la sensibilità con cui mi chiese se c’era stato un imbarazzo da parte mia nel 2001 per la sua proposta di facilitare con un invito a pranzo il mio primo incontro con Jack Welch, allora ceo di General Electric, che sarebbe venuto da me a Bruxelles per ottenere l’autorizzazione alla fusione GE-Honeywell. Era un gesto di cortesia verso due persone che conosceva bene, ma che dovetti declinare a causa delle rigide norme sulle procedure antitrust. Gli dissi che mi spiaceva aver dovuto declinare, ma che non ebbi alcun imbarazzo. Ma rimasi molto colpito dalla sua memoria e dal suo desiderio di voler togliere ogni possibile ombra fra noi».
Cosa le ha lasciato?
«Pensai allora a qualcosa che posso misurare molto meglio ora, dopo vent’anni: la grande influenza che, nel modo discreto e rispettoso che ho descritto, la personalità poliedrica di Gianni Agnelli ha avuto su di me, come probabilmente su tantissime altre persone. Era la sua personalità magnetizzante in ogni contesto a segnare chiunque entrasse in contatto con lui».