Non esistono i maschi progressisti
21 Novembre 2023InsegnIamo a scuola a sopportare il rifiuto
21 Novembre 2023il 25 novembre
di Paolo Giordano
In queste ore viene ripreso lo slogan «educate your son», educate vostro figlio. Al di là del suonare come l’ennesimo richiamo soprattutto alle madri, ci sembra che la famiglia non sia mai stata un luogo troppo affidabile di educazione sul genere. E non è comunque il luogo sul quale una società nel suo complesso dovrebbe fare affidamento. Quali altri allora? Qualcuno è in grado di nominare anche un solo contesto nel quale avvenga oggi una costruzione dell’affettività? O abbiamo abbandonato quel tipo di percorso interamente al caso, alla fantasia comoda che le nuove generazioni siano più consapevoli, più aperte, meno sessiste eccetera? Se una parte della società si sta alfabetizzando sulle complicazioni della vita relazionale, si ha l’impressione che l’altra scivoli indietro, e che questo movimento retrogrado non sia legato a una mera distinzione di classe.
«Educate vostro figlio» presuppone inoltre che l’apprendistato all’affettività possa dirsi a un certo punto completo, che la violenza di genere abbia un’età di espressione e una di scadenza (guarda caso, adesso, quella di Filippo Turetta) e che il rapporto con il genere opposto — e con il proprio — non sia invece una negoziazione continua, a ogni stadio della vita (sebbene gran parte dei femminicidi siano perpetrati da giovani o da adulti, se ne verificano con meno clamore anche tra le persone anziane). Non mi vergogno di ammettere, per esempio, di aver imparato solo da adulto a nominare alcune pratiche segnanti del maschilismo. Ne cito due a titolo di esempio, scusandomi in anticipo con i detrattori degli anglicismi: il catcalling (ovvero l’abitudine di esprimere apprezzamenti alle ragazze per strada) e il mansplaining (ovvero l’abitudine altrettanto diffusa tra i maschi di spiegare come stanno o si fanno le cose). Non che non conoscessi queste pratiche anche prima, che non le conoscessi implicitamente, anzi visceralmente, ma sentirle nominare in anni recenti le ha portate sopra la soglia della mia consapevolezza, rendendomele riconoscibili. È difficile da credere, ma c’è ancora così tanto del rapporto fra i generi a non essere affiorato alla superficie verbale, così tanto che ha bisogno di essere cavato fuori dall’informe delle pulsioni. Quell’«educate your son» ci chiama in causa anzitutto, ancora, come educandi.
Nei giorni successivi allo stupro di gruppo di Palermo vorticava ad esempio in aria la parola «consenso», ma si è depositata a terra prima ancora che iniziassero le scuole. Sarebbe tanto assurdo pretendere che ogni ragazzo e ogni ragazza, anzi ogni bambino e ogni bambina, incappasse almeno una volta nel termine «consenso» prima di addentrarsi nelle tenebre dell’età puberale? Sapere le parole non mette al riparo nessuno, è chiaro, ma può renderci, in media, un po’ più decenti. E diffondere un sillabario minimo sulle molte forme della violenza di genere, a partire dai primi cicli scolastici, non richiederebbe nemmeno un grande sforzo. Mi riferisco a qualcosa di diverso dalle «campagne di sensibilizzazione», che hanno quasi sempre quell’aria di polizia che mira a insegnare a riconoscere il pericolo fuori, come irriducibilmente altro da sé, quando si tratta di imparare a nominare spinte innominate che esistono dentro di sé. In questo senso, nella coincidenza inedita di due donne alla guida, sarebbe davvero importante che il governo accettasse la mano tesa dell’opposizione.
C’è anche una parola che dovrebbe vorticare in aria dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin, non la conosco ma è qualcosa che ha a che fare con lo svincolo. Con quanto sia delicato e talvolta pericoloso il momento in cui una ragazza o una donna si svincolano nei confronti di un ragazzo o di un compagno o di un padre. Tra i molti aspetti odiosi di questa vicenda c’è infatti il momento della vita di Giulia Cecchettin in cui l’omicidio è avvenuto, nell’imminenza della sua laurea, appena in tempo per soffocare la sua piena emancipazione. Afferrare, trattenere, bloccare, immobilizzare dalle braccia sono tra i gesti tipici del dominio maschile. E sono, di nuovo, gesti consueti, che ogni uomo sa esistere nei propri muscoli. Talvolta si manifestano in maniera letterale ma più frequentemente vengono traslati, per esempio nel contenere o tagliare o anche solo «gestire» le risorse all’interno delle famiglie.
Alcune delle ragioni per cui l’omicidio di Giulia Cecchettin ci ha tenuto avvinti sono equivoche. Non c’entrano davvero con il fatto che una ragazza è stata uccisa, e nemmeno con la sua giovane età. C’entrano semmai con la piccola borghesia e l’impossibilità di porre una distanza sociale rispetto a quel contesto, e c’entrano con il modo in cui la vicenda si è sviluppata mediaticamente davanti a noi: la scomparsa, la suspence e le congetture, il ritrovamento del cadavere, poi la fuga improbabile e la cattura dell’assassino pedinato dalle telecamere in autostrada. Quello che altrimenti sarebbe stato il centoduesimo femminicidio del 2023 ha colpito l’immaginazione collettiva anche perché assomiglia a una crime story ben sceneggiata. Così funziona purtroppo la nostra adesione emotiva alla realtà, e così funzionano i media. Per questo assisto con un po’ di scetticismo alle esibizioni diffuse di contrizione maschile. Ma, al netto delle ragioni, il suo assassinio ha dato un impulso. Durerà quel che durerà, poco, meno di un soffio, ma adesso c’è. Non sprecarlo è il solo atto riparativo che come collettività possiamo tentare per lei.